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Associazione Gea
Psicologia Analitica e Filosofia Sperimentale
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GeaBlog: Riflessioni e Pensieri in libertà
  dal 40 al 34   
Ada Cortese Apr 2017
Evento "Lions" alle Cisterne del Palazzo Ducale
Lo specchio e' un giudice spietato

Riflessioni, cronaca, giustizia e clemenza

In occasione di questo evento, organizzato dai Lions di Genova, si sono riuniti portatando il loro contributo professionale alcuni esponenti dei diversi ambiti della nostra società: magistrati, avvocati, imprenditori, rappresentanti di diverse categorie, scrittori, giornalisti e la sottoscritta nella sua qualità di psicoanalista.

Il mio intervento, come tutti gli altri, ha preso la forma viva e coinvolgente del dialogo/intervista attorno a temi davvero interessanti suggeriti dalle opere di Esenin e Dostoevskyij quali la resistenza umana ad affrontare gli abissi della propria anima, la consapevolezza di sé vivibile provocatoriamente come malattia, la seduzione del male rispetto al sublime, la depressione...
Avendo chiacchierato a braccio non posso riportare lo specifico del mio intervento ma la profondità psicologica delle "Memorie dal sottosuolo" di Dostoeveskij , "L'uomo nero" di Esenin, e "Il mercante di Venezia" di Shakaspeare dei quali alcuni estratti sono stati recitati nel corso dell'evento, mi hanno comunque suggerito alcune brevi riflessioni in ordine sparso che comunque ruotano attorno ai temi dell'Ombra, della giustizia e della clemenza.
Poche riflessioni perchè le opere, grandiose nell'esprimere l'autocelebrazione dell'Ombra personale, poco lasciano a "interpretazioni" e "letture". Riporto dunque uno estratto dalle "Memorie dal sottosuolo" di Fedor Dostoevskij.

Sono un uomo malato...
Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole.
Credo di avere mal di fegato.
Del resto, non capisco un accidente del mio male
e probabilmente non so di cosa soffro.
Non mi curo e non mi sono mai curato,
anche se rispetto la medicina e i dottori…
non voglio curarmi per cattiveria.
Io, non saprei spiegarvi a chi esattamente faccia dispetto con la mia
cattiveria;
so meglio di chiunque altro che con tutto ciò
nuocerò unicamente a me stesso.
E tuttavia, se non mi curo, è per cattiveria.
Il fegato mi fa male, e allora avanti, che faccia ancor più male!
È già da molto tempo che vivo così .
Prima lavoravo. Ero un impiegato cattivo.
Ero villano e ne ricavavo piacere.
Ma in che consisteva il punto fondamentale della mia cattiveria?
Proprio lì stava tutto il nocciolo:
che in ogni momento,
perfino in quello della rabbia più accesa,
vergognosamente riconoscevo dentro di me
che non solo non ero un uomo cattivo,
ma neppure ero inasprito,
che spaventavo soltanto inutilmente i passeri
e così mi consolavo.(...)
Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare:
né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto.
E ora vegeto nel mio cantuccio,
punzecchiandomi con la maligna e vana consolazione
che l'uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa,
ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco.
Questa è la mia quarantennale convinzione.
Vi dirò che molte volte ho voluto diventare un insetto.
Ma neppure questo ho meritato.
Essere troppo coscienti è una malattia,
un'autentica, completa malattia.
Sono fermamente convinto
che addirittura qualsiasi coscienza è una malattia.
Perché, proprio nei momenti in cui ero
più capace di riconoscere
"tutto ciò che è sublime ed elevato",
mi capitava di commettere azioni così indecenti, che... ma sì,
che magari tutti commettono, ma che a me,
venivano proprio quando più sapevo che non
andassero assolutamente commesse?
Quanto più ero cosciente del bene,
tanto più mi sprofondavo nel mio limo…
e l'aspetto principale era che tutto ciò non pareva casuale in me,
era come se dovesse essere così.
Quanti supplizi sopportai in quella lotta!
Per tutta la vita l'ho tenuto celato in me come un segreto.
Mi vergognavo; arrivavo al punto di
sentire un anormale, vile piaceruzzo nel ritornare talvolta nel mio
cantuccio, a tormentarmi e struggermi
finché l'amarezza si trasformava in una sorta di ignominiosa,
dannata dolcezza
e alla fine in un ben preciso, autentico piacere!
Sì, in piacere!
Il piacere della chiara coscienza della propria umiliazione;
dell'aver toccato il fondo(...)
Ciò deriva dal fatto che io stesso non mi rispetto...
ma può forse un uomo cosciente
avere il minimo rispetto di sé?
Chi puo' mai giudicare?
Questo non toglie ch'io m'intenerisca nell'animo, mi penta, versi lacrime e…
naturalmente, inganni me stesso,
anche se non fingo affatto.
E' il cuore che gioca sporchi tiri...
...e poi mi annoiavo assai a restar seduto con le mani in mano;
allora mi davo ai contorcimenti.
Mi inventavo da solo delle avventure
e mi immaginavo una vita, per vivere almeno in qualche modo.

A proposito di questa opera mi si chiese se io riscontrassi reale sofferenza o non vi s'insinuasse un sotterraneo gusto letterario di giocare e assemblare sentimenti così diversi. Ingenuamente risposi che non capivo non avevo dati sufficienti per individuare...in realtà rileggendo oggi l'opera propendo per l'esercizio letterario, troppe cose insieme, forse un po' esagerate..."proprio quando sono vicino al sublime scelgo il peggio"....bah. Se lo cogliamo in termini generali e universali ho la traccia per una ipotesi. In un'opera singolare individuale, forse non regge.
Ma tornando alla grandiosità dell'autodescrizione negativa di se stessi, ovvero alla descrizione della propria Ombra, sembra talmente di compagnia questa Ombra che la si preferisce ad ogni altro scombussolamento. Il tutto suggerisce una convivenza troppo stabilizzata con essa.
Sembra che un narcisismo primario agisca e che impedisca di andare oltre.
In tale narcisismo primario, ovvero nell'esposizione così accentuata e caricaturale dell' egoriferimento esasperato forse si maschera e si manifesta una critica dell'autore alla personalità standard sociale e individuale della cultura del suo tempo.
Anche nell' "Uomo nero" di Sergej Esenin si ritrovano gli stessi accenti.

Amico mio, amico mio,
sono molto e molto malato.
Non so io stesso donde provenga questo male:
se sia il vento a fischiare
sulla vuota e deserta campagna,
o se l'alcol sconvolga i cervelli
come un boschetto a settembre.
La mia testa sventola le orecchie
come un uccello le ali !
Non ha più la forza
di dondolarsi sul collo!
Un Uomo Nero (Nero, Nero !),
un Uomo Nero siede sul mio letto,
un Uomo Nero non mi fa dormire tutta la notte!
Un Uomo Nero muove un dito
sopra un libro innominabile e con voce nasale,
come un monaco sopra un defunto,
mi narra la vita di un furfante e ubriacone,
incutendo nell'anima angoscia e sgomento.
Un Uomo Nero (Nero, Nero !).
"Ascolta, ascolta"
mi viene borbottando
"Vi sono nel libro molteplici piani
e pensieri bellissimi.
Abitava quest'uomo nella contrada
dei più tremendi banditi e ciarlatani.(...)
E la felicità, egli diceva,
è destrezza di mente e di mani.
Tutte le anime maldestre ebbero sempre fama di infelici
e non fa nulla se molti tormenti
arrecano i gesti ambigui e bugiardi.
Fra tempeste e bufere,
nel gelo della vita quotidiana,
nelle perdite gravi e nella tristezza
mostrarsi sempre sorridenti e semplici
è l'arte suprema del mondo".
"Uomo Nero, tu non osi altrettanto !
Che mi importa della vita di un poeta scandaloso ?
Leggi ad altri, ti prego, il tuo racconto."(...)
Amico mio, amico mio, sono molto e molto malato.
Non so io stesso donde provenga questo male:
se sia il vento a fischiare
sulla vuota e deserta campagna,
o se l'alcol sconvolga i cervelli
come un boschetto a settembre.
E l'Uomo Nero ancora:
"Ascolta, ascolta"
egli rantola, fissandomi in viso
ed il suo muso si fa sempre più vicino
"Io non ho visto mai nessun furfante
soffrire di un'insonnia così stupida e vana!
Ah, supponiamo ch'io mi sia sbagliato!
Stanotte c'è la luna. Di che altro
ha bisogno questo piccolo mondo
ubriaco di sonnolenza ?
Forse, con le sue grasse cosce,
lei verrà, di nascosto,
e tu le leggerai la tua languida lirica sfiatata.
Ah, io amo i poeti ! Razza divertente !
Ritrovo sempre in loro una storia che al cuore è ben nota,
come a una studentessa pustolosa
un mostro dai lunghi capelli che le parla del cosmo
grondando languore sessuale!(...)
"Uomo Nero, sei un ospite pessimo.
Questa fama da tempo ti circonda."
Vado in collera, mi infurio,
ed il bastone mi vola diritto sul suo muso,
alla radice del naso.
La luna è morta.
Alla finestra illividisce l'alba.
Ahi tu, notte, perché tanto scompiglio ?
Io sto in cilindro.
Con me non c'è nessuno.
Sono solo e lo specchio infranto.
Non è nuovo morire in questa  vita,
ma vivere non è neppure nuovo!
(Sparo)


Stessi accenti ma diversa condizione psicologica dei due autori: Dostoeveskij vive ed ha una notevole carriera, Esenin si spara veramente portando in mano per la città questo suo scritto.
Vi é come un compiacimento nel fare per primo ciò che ci si aspettava dovesse arrivare dall'esterno: l'attacco aggressivo, la critica, il giudizio morale altrui su questa accidia come modus vivendi. E' come l'autore ci dicesse "Lo so da me è inutile che mi attacchiate. Sono deplorevole. Ma in me la coscienza parla e dice per voi, anche per voi, l'indicibile. Io sono così cosciente da portare alle estreme conseguenze il pensiero spietato della Coscienza su se stessa. Senza attenuanti perchè io perseguo la verità. E quando la coscienza arriva a queste vette cade ogni illusione di impegno di lotta di senso". La coscienza resta sola col peso di se stessa senza sapere che fare e dove andare.

Sembrerebbe allora che la grande disperazione in questa coscienza così lucida della sua "inutilità" nasca da una sorta di solipsismo, da una ricercata solitudine. Non tanto solitudine concreta quanto simbolica.
E' come se mancasse l'io-tu, l'io-noi, l'io-profondità, la percezione del Sè inteso come il grande soggetto millennario, la vita intelligente pensante che ci parla dentro. Jung la pensava come Einstein: l'universo come grande unico organismo integrato e pensante. Forse solo questa concezione che prima ancora è solo percezione, può essere l'unica via che sottrae, che può sottrarre alla disperazione dell'ego, il quale,per sua natura si fa solo nel suo tentativo di dominare e falsamente onnipotente.
Nella relazione con l'universale l'Ego trova compensazione alle sue ansie e ai suoi limiti e si autoriconosce più che identità, semplice funzione psichica: l'operaio al servizio del Signore (il Sè).
Nel suo proporre l'inganno l'Ego ci consegna alla distorsione del significato e dunque alla sofferenza. Esso non ci aiuta a vedere le cose per come davvero stanno ma ci costringe nel nostro piccolo frammento particolaristico facendolo assurgere a fondamento della nostra verità identitaria. E così tutto si deforma. Tutto può accadere nello stritolamento della menzogna e il nostro anelito a vivere al meglio i successi, le gioie, gli errori, le cadute, le offese, le ferite, e ogni peripezia che la vita ci impone diventano anzichè esperienze su cui crescere, note di merito o di demerito, aspettative di riconoscimento o colpe da espiare.


Sulla giustizia e la legge/legalità
Credo che la giustizia stia all'amore come la legalità al razionalismo.
Per fare giustizia ci vuole cuore ovvero partecipazione emotiva nella ricerca della più umana interpretazione della "legge". Che non significa necessariamente mollezza e pietismo diseducativo. Significa avvalersi della propria capacità di percepire in sè le onde del movimento psichico che oscilla tra difese pseudo onnipontenti e cadute pseudo abissali in vissuti di fragilità infinita. Soprattutto significa disporre coscientemente dell'aspetto simbolico.
Per fare legge/legalità basta forse la lettera della stessa. Schematizzando ed esasperando coinciderebbe con l'applicazione concretistica e razionalistica della stessa. Se la giustizia chiama in causa l'aspetto animico del giudicante, la sua capacità introspettiva del profondo, la sua capacità di interrogarsi, per la mera legge basta l'ego che attinge puramente al dato costituito.

A proposito di colpa e giudizio
Non voglio nè posso inoltrarmi lungo i sentieri ardui della vita propriamente giuridica. Posso solo azzardare parallelismi per la vita psichica di ognuno di noi che apparteniamo a questa nostra società occidentale in decadenza.
Possiamo così non darci "l'ergastolo" per ogni sbaglio che riconosciamo in noi solo se:
- abbiamo conosciuto l'amore, la relazione affettiva, in una modalità sufficientemente sana
- se con l'amore abbiamo potuto sviluppare una relazione interna
- se il tu interiore si è nel tempo trasformato da volti familiari e fantasmatici in presenza e compagnia di un Sè dai mille volti e nessuno.

Cito la frase dal "Mercante di Venezia" di Shakespeare:
Essere in colpa e giudicar son due diverse parti e d'opposta natura, ma nessun presuma di indossare una immeritata dignità.
E ancora
Da niuna costrizion pietà è forzata.
Una terrena Potenza alla divinità più somiglia quando la sua giustizia è raddolcita dalla pietà.


E guarda caso le parole sono espresse da un Femminile (Porzia sotto mentite spoglie di avvocato maschile).
Per non parlare del Dio dell'immanenza di cui parla il teologo Drewermann, quel Dio che vuole gioia per i suoi peccatori i quali solo questo obiettivo devono raggiungere: di essere felici sia pure dopo le giuste pene per i peccati, anche gravi, compiuti. Per questo Dio è più grave indulgere nel dolore che ritornare a vivere e ad amare. Così Davide si riprende la sua vita con Betsabea dopo aver pianto un giorno intero per aver fatto uccidere il marito di lei, suo più fedele soldato!

Viceversa ci puniremo ogni giorno e ogni ora della nostra vita:
- se l'amore è stato insufficiente o malato
- se siamo stati lasciati soli con il nostro fragile ego che svilupperà una relazione rivoltata e sottosopra con una voce interiore ombrosa, opposta all'amore mancato, una voce inquisitoria, giudicante, spietata che terrà fermo come valore e legge il dato sociale costituito standardizzato della coscienza collettiva.

C'è da aggiungere che l'aspetto caratteriale specifico dell'individuo ovvero quell'insieme di predicati psicoidi del suo essere dunque anche genetici, partecipano alla dinamica che deciderà nell'individuo la soglia di tolleranza o meno alle frustrazioni. Voglio dire che a volte l'amore sufficiente per l'uno non lo è per l'altro sicchè l'uno regge la vita nella giustizia verso se stesso mentre l'altro cade sotto il giogo dell'inquisizione interiore. Senza contare tante altre variabili che entrano gioco.
E a proposito degli atteggiamenti depressivi della coscienza quali quelli portati alle estreme conseguenze da Esenin nel suo "Uomo nero" o nelle "Memorie dal sottosuolo" di Dostoeveskij c'è da ricordare la condizione e il processo particolare della struttura psichica umana: la forza istintuale è stata sottratta, in parte, all'atto istintuale (istinto vero e proprio) e deviata, trattenuta e fatta risalire, "innaturalmente", verso l'atto conoscitivo (intuizione). A favore dunque della coscienza e della facoltà creatrice dell'Uomo.
In questo processo la tensione istintuale si trasforma in intuizione e atto simbolico. I Wachandi che riproducevano l'atto sessuale scavando una fossa e lanciandovi dentro le loro lance, il tutto come rito propiziatorio e simbolo propiziatorio di un buon raccolto, sono il primo esempio che Jung descrive.
Il mondo simbolico avanza e lo sradicamento dalla Terra e dall'istinto pure.
Se per un verso questo spostamento ha creato la grandezza dell'uomo dall'altro gli ha procurato una sorta di scollamento dalla vita, al maschio più che alla femmina.
Essere orfano della Natura, ovvero non essere più così predeterminato dall'istinto è per l'uomo l'oscillazione fondativa e necessaria alla sua evoluzione e, contemporaneamente, alla sua grande fragilità e alla sua perdizione. Più la coscienza cresce (Occidente) più cresce la sua unilateralità. La natura si è persa ed è sparita dalla coscienza dell'uomo che guardandosi allo specchio non sa chi egli sia, nè avverte più facilmente un senso alla sua vita, ammesso che vi sia.
Ecco il perchè della psicoanalisi. La natura determina l'uomo che pensa di essersene liberato. In realtà tutto quello che è sparito dalla sua analisi razionale e coscienziale si prende la rivincita alle sue spalle. L'istinto, la Natura, la Terra e lo stesso possibile senso sono arretrate e si chiamano Inconscio.
Per questo Jung si è soffermato sul lato finalistico della evoluzione psichica oltre che sul lato causale già ampiamente considerato da Freud. Certo che per poterlo attivare, il lato finalistico intendo, ed essere d'aiuto alla coscienza, parrebbe necessaria una sorta di educazione all'ascolto ed alla elaborazione dei propri vissuti e della propria zona oscura. E quando l'ascolto del proprio inconscio si rende possibile, ciò che ci viene incontro per prima è proprio la nostra Ombra, la prima immagine di noi stessi riflessa allo specchio.
Specchio crudele avanti a cui non ci agghindiamo nè ci trucchiamo, nè sono d'alcuno aiuto chirurgie estetiche che valgono solo per consolare un po' il nostro ego ma non sempre la nostra Anima. Avanti allo specchio simbolico di cui parliamo quello che dobbiamo sopportare è proprio il rapporto con i nostri limiti i nostri difetti le cose che di noi non ci piacciono e che il nostro Io, finchè non cede al malessere psichico generale del soggetto di cui è parte, continuerà a proiettare all'esterno.
Il lavoro analitico è lungo e a volte penoso, ma se l'arroganza egoica viene tenuta a bada, allora seguiranno altre tappe del percorso che permetteranno al soggetto di sgusciare via dalla depressione.
Essa, la depressione intendo, possiamo dire diventa nocciolo duro insuperabile e incontrovertibile quando la coscienza e l'ego restano soli e isolati dal resto della vita e del mondo.
Einstein sosteneva, e mi sembra che non ci voglia molto a riconoscere una cosa del genere, sosteneva che niente a questo mondo vive di vita separata e questa consapevolezza sarà base per un nuovo spirito religioso e per una naturale percezione di un'Anima altrettanto naturale.

Ma stante che nel nostro Occidente culturale, nei nostri giorni, stiamo vivendo l'esasperazione dell'egoriferimento, stiamo anche vivendo necessariamente la massima distanza del soggetto umano dal resto della vita e del mondo. E ne stiamo facendo poltiglia. Di vita, di Anime, di Mondo. Questa è l'Ombra dell'Occidente.
Inevitabilmente la coscienza sola, sotto il dominio della logica formale divisoria, del segno, del concretismo e della forza maschile collassa sempre più su se stessa. E tornando dallo sguardo generale alla condizione soggettiva, inevitabilmente la coscienza umana abbandonata a se stessa e alla sua pesantezza, da che gli dei sono impalliditi e la morale pure, inevitabilmente si consegna alla condizione depressiva.

Ora il movimento evolutivo va avanti per tentativi ed errori in semilibertà. Semilibertà perchè in parte è lo stesso sistema psichico sviluppatosi prevalentemente nell'Uomo che sospinge alla sua più estesa attuazione per un quasi implicito e programmato autosuperamento, per l'altra parte lo stesso sistema psichico tende alla sua conservazione.
Posso azzardare che l'evoluzione sia delegata per il prossimo futuro al Femminile del mondo. E cito R. M. Rilke.
Lo cito perchè le cronache di "femminicidio" orribile parola coniata da mente perversa sicuramente maschile, o comunque le cronache nere di delitti sempre più efferrati, si inscrivono a mio avviso proprio in questo registro di prossimo "superamento" coscienziale del femminile rispetto al maschile. La disperazione di chi scopre che la sostanza della propria forza è solo debolezza e ombra ormai infinita.

Finisco con ciò che in definitiva decide il nostro fondamentale modo di percepire noi stessi e il mondo ossia con la visione del mondo di cui disponiamo. Esistono due possibili visioni del mondo che sottendono al modo di avvicinarsi a se stessi e alla vita:
accidentalità. Materialità. Il noumeno insuperabile e inconoscibile. Conflitto insanabile individuo/società, istinto/cultura ecc. Morire come le bestie e niente più (Brecht). Ambiente favorevole alla depressione. Questa visione riconosce come conoscente solo la coscienza
Vita integrata, evoluzione, direzione, finalismo. Questa visione riconosce come conoscente sia la coscienza che l'inconscio.
Spesso esse si incrociano, lasciando spazio al dubbio alla ricerca ma anche alla pace e alla percezione del possibile superamento di ogni dualità, quando l'estremo senso, per dirla con Jung, coinciderà con l'estrema assurdità.


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1992 "Inaugurazione di Gea"

Estratto intervista su Rai 3

Alejandro Jodorowsky a Gea

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