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Psicologia Analitica e Filosofia Sperimentale
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GeaBlog: Riflessioni e Pensieri in libertà
  dal 10 al 4   
Andrea Sangiacomo Ago 2009
Sul Destino

Del poema di Parmenide ci restano pochi frammenti, e ciò ci costringe, più che a un lavoro di interpretazione, a un'opera di vera e propria ricostruzione.

Anche questa è la sfida di Parmenide. Sfida che si mostra tanto più difficile quando si considera che alcuni si riducono ad appena un singolo verso, come ad esempio il quinto, che dice: "indifferente è per me/ il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno".
Eppure, se iniziamo a soffermarci proprio su queste poche parole, che emergono da un silenzio antico ormai di venticinque secoli, scopriamo che il tempo non le ha rese mute, qualcosa ci dicono ancora: "indifferente è per me/ il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno". Verrebbe da intendere: per me non importa il punto di partenza giacché comunque a quella partenza dovrò tornare, il mio essere è siffatto per cui ogni dipartirsene è già un mettersi sulla via del ritorno. Quindi qualunque sia il mio essere, esso essenzialmente resta sempre lo stesso e ogni andare è già sempre un ritornare a quello. Le differenze, se pure vi sono, sono in realtà indifferenti al senso ultimo del mio percorso: "indifferente è per me/ il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno".

Dunque è vano questo mio andare? Ad ascoltare il frammento, vana, pare dirci Parmenide, sembrerebbe piuttosto la mia pretesa di andare altrove e farmi altro da ciò che ero, diventare altro da ciò che sono e che sarò. L'unico luogo in cui mi è dato muovermi è quel luogo da cui non si esce, è il luogo in cui io sono sempre. Al mio essere è indifferente da dove devo partire e che sentiero decido di imboccare, giacché nessun sentiero porta fuori da questa contrada ma tutti convengono di nuovo al medesimo punto. Io sono destinato a essere sempre nello stesso luogo. Il mio stesso dipartire è già un muovermi sulla via del tornare, perché ogni via si chiude in cerchio sul punto di partenza. Il punto da cui l'andare si origina è il punto a cui torna, il mio andare torna all'origine del mio essere. Ogni sentiero già da sempre è un sentiero che riporta all'originario. Questo originario in quanto tale non è differenziato, non ammette alterità, è sempre il medesimo essere, innanzi al quale "indifferente è per me/ il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno".

Questo quinto frammento che stiamo prendendo ad esempio, proprio perché è solo un frammento, che per noi viene e torna nel silenzio, sembra così parlarci dell'impossibilità di uscire dal luogo in cui siamo. Non c'è un fuori da questo luogo: siamo destinati a essere dove siamo. Siamo dunque in prigione? La prigione è ciò che mette inferiate e catene tra me e il fuori, la prigione presuppone il fuori da cui mi intende tenere lontano. Quello che dice invece questo frammento è qualcosa di diverso: "indifferente è per me/ il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno". Qualsiasi sia il sentiero che imbocchi o la direzione che scelga, nessun sentiero e nessuna direzione saranno tali da portarmi altrove da qui. Questa contrada in cui io sono è quella in cui il mio essere non conosce tradimento: torna sempre a se stesso, cioè è già da sempre presso di sé. In questo "sempre" parla il senso dell'eterno. E questo eterno mi appartiene non perché io sia un dio ma in quanto, semplicemente, sono. L'Essere è il mio Destino.

Emanuele Severino, in una delle sue opere più significative, e significativamente intitolata Destino della necessità, scrive:
"Il destino della verità, custodisce ed è il cuore del Tutto. Da un lato, perché il Tutto non è disponibile alla violazione di ciò che la verità dice, e non è così disponibile perché questa violazione è autonegazione. Il destino della verità è la casa e non la prigione del Tutto, perché chi abbandona questa dimora non trova alcun luogo ove abitare: è travolto dagli stessi passi che muove per attraversare la soglia del destino - che è dunque soglia inoltrepassabile. Dall'altro lato, il Tutto non è disponibile al niente (e questa non disponibilità è appunto ciò che il destino della verità dice). La destinazione di ogni cosa all'essere non soffoca un'intima vocazione delle cose, giacché il richiamo più profondo udito dalle cose nel loro ascolto essenziale è la loro appartenenza all'essere. In quanto ogni cosa è destinata all'essere, ogni cosa è in accordo con sé medesima, sta nel proprio cuore. Non potersi liberare dal destino dell'essere significa rimanere fedele al proprio cuore, non poterlo tradire"2.

Gli eventi non accadono nel senso che vengono dal niente e nel niente ritornano, ciò che passa non passa nel senso che si annulla, ciò che viene non emerge dal non essere, il futuro non è lo spazio vuoto del possibile, così come il passato non è la fossa dimenticata dell'ormai stato. L'Essere è la contrada in cui siamo destinati a stare sempre.
Pensiamo a quello che avviene in uno spettacolo teatrale: i personaggi entrano ed escono di scena, dialogano, la vicenda si sviluppa e segue il suo corso. Ma nulla entra o esce dal nulla: tutto è già scritto e nessuna parola potrebbe essere diversa da come è, anche se sembra la parola più spontanea e più casuale del mondo, anche il più piccolo silenzio, anche il dettaglio più insignificante, la svista, l'imprevisto: tutto è previsto nel copione.

Il Destino è questo copione. Ma noi non siamo attori. L'attore è qualcuno che mette una maschera, interpreta il personaggio, ma non è il personaggio, l'attore già conosce ogni battuta ma nessuna gli appartiene davvero, le battute sono del suo personaggio, ma non quelle che lui pronuncia quando si cala la maschera e scende dal palco. Per l'attore, come per il pubblico, ciò che va in scena, proprio perché è su una scena, è solo finzione, sublime o noiosa, non importa, resta comunque finzione.
Il nostro Destino è la storia del nostro essere, è ciò che racconta quello che siamo. Possiamo pensarci come attori in questo dramma solo nella misura in cui ci pensiamo separati dal nostro esserci. Ma pensarsi separatamente dal proprio esserci è una follia, vuol dire pensarsi come un niente, o come qualcosa che viene e che va nel niente.
Ciò che invece ci dice il Destino, quando è la filosofia a pronunciare questa parola, è appunto che il nostro essere non ci è indifferente, che noi anzi siamo il nostro essere e lo siamo sempre, da sempre, per sempre. Dunque, se il Destino è il nostro Dramma noi non siamo attori di questo Dramma, ma personaggi, dramatis personae. Noi non siamo interpreti di qualcosa in cui ci caliamo venendo e restando essenzialmente altro, non indossiamo maschere: noi siamo Edipo, Clitemnestra, Amleto, Macbeth, Enrico IV.
Fuori dal Destino non resta niente, tutto è scritto. Ma filosoficamente intesa, questa espressione non ha niente di fatalistico. Per il fatalista il Destino resta una forza a lui esterna a cui bisogna sottomettersi. Il fatalista si pensa come attore del Dramma, non come personaggio.

L'uomo è un personaggio. Può ben sembrare questa la più imperdonabile delle sciocchezze, addirittura un'ingenuità inaccettabile. E la libertà? Noi non abbiamo forse scelto di essere qui, ora, non ci siamo forse venuti di nostra volontà? O forse qualcuno ci ha costretti a venire, e ora a restare?
Queste due domande, che sembrano opposte, tradiscono entrambe l'essenza del problema. Il problema, infatti, non è stabilire quale sia il margine di libertà che il Destino lascia alla nostra libertà di scelta. Ma chiarire, in primo luogo, che, comunemente, la libertà la si intende proprio come una libertà di scelta, cioè come il potere di far essere o non essere, in base a ciò che si vuole, le cose che si pensano come possibili. Rispetto a ciò, il Destino è la parola che nega la possibilità di una simile libertà. Il problema autentico, allora, è capire se si offra un altro senso e un diverso ascolto di questa parola: "libertà".
Se noi siamo il nostro Destino, il nostro Destino è tutto il nostro passato e tutto il nostro futuro. Ma per quanto il Destino sia già predeterminato, a noi si mostra non prevedibile: non ci è dato vedere "cosa ci riservi il Destino", ma solo ricordare ciò che ci ha riservato. Noi siamo qui, ora, ma noi qui e ora siamo anche il nostro vivente passato, e volgiamo anche verso quel futuro che ci attende come un sentiero già tracciato ma ancora da percorrere. Non ci sono discontinuità ma, come in un dramma, un unico grande gesto scenico, un unico grande movimento. Dove questo gesto conduca, però, appunto, non riusciamo a vederlo in anticipo, possiamo ipotizzarlo, ma l'ipotesi abita assieme a noi il nostro presente, non è essa stessa identica al nostro futuro. L'essenza del futuro è l'essere oltre ciò che noi siamo qui e ora. Questo essere oltre ha appunto il carattere di ciò che è, esiste. Il futuro è il di più verso cui muove il gesto del nostro Destino, un di più che, nella misura in cui siamo qui e ora, ancora non conosciamo.
Essendo il nostro Destino, noi siamo tutto il nostro Destino, quindi non solo quello che ne abbiamo conosciuto ma anche quello che ancora misterioso ci attende. Ma se noi siamo il nostro Destino e se quello che siamo qui e ora non è tutto il nostro Destino, ne segue che noi siamo di più di ciò che siamo qui e ora. Noi siamo questo, ma siamo di più di questo. E questo di più non lo vediamo ancora, ma c'è già, è lì che aspetta, è il luogo verso dove ci muoviamo, l'altrove che chiama a sé, come una vocazione: qui e ora una parte di quello che siamo ancora non la vediamo, ci sfugge.

Poiché il nostro Destino non è altro da noi, non è una mano che scenda dal cielo imponendoci una volontà estranea, ma non è nemmeno un certo numero ristretto di "grandi eventi" che animano la nostra vita, il nostro Destino è ogni singolo momento, ogni sfumatura, ogni silenzio, ogni colore, ogni incertezza, titubanza, dubbio, imprecisione. In quanto il Destino non è altro, non è nemmeno qualcosa che limiti la nostra libertà, ma è lo spazio di questa libertà. Libertà che però non può essere intesa come la scelta che de-cide, cioè separa, ciò che deve essere, che si vuole che sia, da ciò che non si vuole far essere. Il Destino, in quanto sta fermo e solido in sé, non si lascia de-cidere da nessuna volontà, il Destino è sempre Destino della ne-cessità.

Dove sta dunque la libertà? La libertà sta proprio nel di più che a noi compete in quanto personaggi di questo Dramma. Noi siamo questo che ora accade, ma siamo sempre di più di questo, non siamo legati e vincolati solo a questo, noi siamo tutto il nostro Destino, non solo una sua porzione, tantomeno quella che ci è ora presente.
Libertà, filosoficamente intesa, non è quindi un poter fare ciò che si vuole, ma è l'essere più di quello che si è limitatamente a un certo momento o a un certo aspetto. Libertà è essere di più, essere già da sempre di più e oltre e anche altrove, essere "questo ma mai solo questo". Libertà è essere infiniti, nel senso di non avere da incontrare limiti che possano rinchiudere l'esistenza in una prigione. Quando la filosofia pronuncia la parola "libertà" la pronuncia quindi pensando il contrario e mostrando l'abissale alienazione che risuona in ogni discorso che di qualcosa o qualcuno affermi: "costui è questo e solo questo, il tal fatto è questo e solo questo". L'abissale alienazione può risuonare perché pensa che ad esistere sia solo l'attimo sospeso sul niente e indeciso sull'Essere. Ma il Destino è Destino della necessità ovvero è ciò che sta e che non cede, ne-cessario, non si lascia separare dal suo Essere. L'abissale alienazione è mostrata come tale dalla parola del Destino che libera il "questo" dal suo esser "solo e soltanto questo che è qui e ora" e lo restituisce alla sua necessità, ovvero all'interezza della sua storia in cui già da sempre e per sempre è in-scritto, e da cui mai può essere sciolto, ab-stractum.

Se il nostro Destino è il Dramma in cui siamo protagonisti, questo Dramma è il Dramma della libertà, appunto perché "mette in scena" il nostro costante essere liberi di essere tutto il nostro Destino e quindi sempre aperti a essere più e oltre ciò che si è in un qualsiasi momento. Ma l'espressione "Dramma della libertà" ha anche un altro valore, un valore più propriamente "tragico": noi non sappiamo quale sia questo di più che ci attende, eppure ci muoviamo costantemente verso questo di più. Ogni azione che compiamo è un passo che ci porta oltre a quello che eravamo qui e ora e ci fa essere più di questo. Ma dunque, ogni azione rivela qualcosa di quel di più: se il Destino nella sua totalità non lo si può prevedere, tuttavia è il nostro agire che ci rivela la direzione verso cui il Destino ci chiama. Ogni azione che compiamo ne mostra qualcosa, qualcosa di ciò che siamo. Ma poiché noi siamo tutto il nostro Destino, ogni azione si riverbera sulla totalità di questo: in ogni azione noi siamo responsabili della totalità del nostro essere, di ciò che è stato e di ciò che ancora dobbiamo raggiungere.
L'uomo non è reso schiavo e messo in catene dal Destino, al contrario, è innanzi a questa parola che scopre il senso inaudito della sua responsabilità: ogni gesto rivela l'eterno, e quindi nulla è in salvo nel nulla dell'ormai accaduto e nulla è perduto nel nulla del non ancora esistente. Nessun gesto è de-cisivo, ma ogni gesto è rivelativo: in ogni gesto noi siamo responsabili non solo di ciò che stiamo facendo, ma di tutto ciò che abbiamo fatto e di tutto ciò che faremo, e quindi il senso di ogni gesto è ne-cessario al nostro intero Destino. Ogni momento siamo responsabili di noi stessi innanzi all'eternità.

Le vicende di Edipo e di Macbeth sono in questo senso emblematiche. Edipo è essenzialmente un giusto. Tutta la vita egli ha agito ispirato da un alto sentire: gli fu predetto che avrebbe ucciso il padre a avrebbe giaciuto con la madre, per evitar questo aveva abbandonato Corinto ove era principe. Sulla via per Tebe aveva sconfitto la Sfinge, il mostro che assediava la città con i suoi malefici, e di Tebe era diventato re, sposando la vedova Giocasta. All'inizio della tragedia di Sofocle, quando una tremenda pestilenza infuria sulla città, egli ha già mandato messi all'oracolo di Delfi per sapere cosa fare e, poiché il Dio chiede di fare giustizia dell'assassinio del re Laio, che prima di Edipo aveva governato, egli senza esitare si impegna nel modo più fermo a punire il colpevole e svolgere le più accurate indagini. Così accurate che alla fine scopre di essere egli stesso l'assassino del re, quel re che si rivela esser stato il suo vero padre, marito di Giocasta, sua madre e ora moglie. Nonostante gli sforzi di Edipo, l'oracolo si è dunque avverato, e lui che voleva essere un giusto si scopre colpevole dei più atroci delitti. Ebbene, come reagisce? Si acceca e applica a sé la sua stessa condanna:

"Non venirmi a dire che non ho fatto ciò che era meglio - dice Edipo nell'esodo della tragedia -, non darmi più consigli. Io non so con quali occhi, vedendo, avrei guardato mio padre, una volta disceso nell'Ade, o la misera madre: verso entrambi ho commesso atti, per cui non sarebbe bastato impiccarmi. O forse potevo desiderare la vista dei figli, nati come nacquero? No davvero, mai, per i miei occhi; e neppure la città, né le mura, né le sacre immagini degli dèi: di tutto ciò io sventuratissimo, l'uomo più illustre fra i Tebani, privai me stesso, proclamando che tutti scacciassero l'empio, l'individuo rivelato dagli dèi impuro e figlio di Laio. Dopo aver denunziato così la mia infamia, dovevo guardare a fronte alta questi cittadini?"3.

Edipo, responsabile del suo Destino innanzi a se stesso, lui che sempre era voluto essere un giusto, giustamente a se stesso infligge la giusta pena per i crimini di cui, contro volontà, pure si è macchiato. E' così che Edipo si salva ed è così che vince sugli eventi: rispettando la sua vocazione alla giustizia. Edipo è più di un parricida incestuoso, Edipo non è solo i suoi delitti, è l'interezza della sua storia e il senso che l'aveva portata avanti: la fedeltà al principio della giustizia. E' innanzi a questo senso, all'interezza di questo, che Edipo è responsabile, ed è proprio questo al quale in fine resta fedele, e che, essendo per lui Il Senso, salva la sua intera vicenda. Edipo non cancella così la sua colpa, né la rinnega, né il suo gesto lo solleva dal suo soffrire, piuttosto testimonia che, anche nell'abisso di questa sofferenza, lui è stato e continua ad essere, qualcosa di più.

Diametralmente opposta è la tragedia di Macbeth. All'inizio lo troviamo valoroso combattente tra le schiere di re Duncan che gli tributa i più alti favori. Sono tre streghe a predirgli un futuro di potere. Ed egli poco a poco inizia a volere questo potere. Certo dubita, è incerto, all'inizio teme ciò che vuole e che tuttavia oscuramente lo chiama. I fatti gli si mostrano favorevoli, il re viene a soggiornare nel suo castello, Lady Macbeth vince le sue ultime resistenze, uccidono il re e Macbeth prende la corona. Sarà solo il primo dei tanti delitti a cui egli sarà "costretto". Una serie impressionante di massacri per consolidare questo potere che egli sempre più vuole. Una seconda profezia del resto gli annuncia che nessun nato da ventre di donna potrà sconfiggerlo e che egli non avrà da temere fino a che la foresta di Birnam non si metterà in marcia verso il suo castello.
Come dire: nulla potrà vincerlo. Ma qui sì, il Destino si mostra davvero "cinico e baro": la foresta si mette in marcia, le truppe dei suoi nemici pensano infatti di usare le fronde per mascherare la loro avanzata. E tra questi, Macduff, che sfidandolo a duello infine lo batterà, "fu estratto prematuramente dal grembo di sua madre"4.

Macbeth è totalmente immedesimato nel suo presente e di volta in volta la sua esistenza assume il senso di ciò che in quel presente si mostra: prima il paladino del re, poi il paladino che scopre l'ambizione, poi l'ambizioso che pur tremando diventa traditore, poi il traditore che si fa re e il re che subito si fa tiranno, infine il tiranno che si vede sconfitto e che vede tradita la promessa che il Destino pure gli aveva fatto.
Nel finale dell'Edipo, Giocasta si uccide, perché non regge la vergogna, Edipo si acceca per restar fedele a quello che era stato il senso di tutta la sua esistenza. Nel finale del Macbeth, Lady Macbeth si uccide, ridotta alla follia dai suoi sensi di colpa, Macbeth, alla notizia della sua morte, feroce uccide e annienta il senso di ogni cosa:


"Domani e poi domani e poi domani,
striscia di giorno in giorno a passi corti
verso la zeta del tempo prescritto;
e tutti i nostri ieri hanno rischiarato
a degli sciocchi il sentiero polveroso
che conduce alla morte. Via, consumati,
corta candela! La vita è soltanto
un'ombra errante, un guitto che in scena
s'agita per un'ora pavoneggiandosi, e poi
tace per sempre: una storia narrata
da un'idiota, colma di strepito e di furia,
senza alcun significato"5.

Nulla vale nulla. La tragedia di Macbeth è tragedia dell'autentica schiavitù. La schiavitù non imposta dal "fato", né avvertita come tale, ma propria di chi si rinchiude nel suo esser "questo e solo questo", la schiavitù di chi, vivendo nella dimenticanza della necessità, pensa di poter separare e decidere di volta in volta di far essere ciò che più vuole far essere, o semplicemente di annientare il tutto. La volontà per essere davvero potente deve volere che il passato e il futuro siano niente, la volontà di potenza esige che l'essere sia sospeso sull'abisso del nulla in modo che le sia dato evocare ciò che essa brama. Solo se ciò che esiste si lascia separare, annientare e produrre, solo a queste condizioni può essere signoreggiato, solo così può diventare un oggetto della volontà e mezzo del suo potenziamento.

Ma il Destino è Destino della necessità e non si lascia spezzare da nessun volere: la volontà di potenza può crescere solo nell'illusione della sua stessa possibilità. E Macbeth è paladino di questa volontà proprio perché egli sa troppo bene, fin da subito, l'abisso di incertezza su cui si sospende il suo volere: proprio perché la volontà vuole il nulla delle cose, essa evoca il nulla per tutte le cose e quindi anche per se stessa. La volontà di potenza per esserci deve ammettere di poter ogni momento essere annientata. La volontà di potenza esiste solo in quanto perennemente esposta al tradimento. Macbeth è schiavo di questo tradimento che volendo tradire il Destino tradisce se stesso e volendo far essere la sua potenza fa essere il niente e quindi annienta ogni esistenza e ogni senso. Il Destino, innanzi alla follia di questa volontà, è

"soltanto una storia narrata
da un'idiota, colma di strepito e di furia,
senza alcun significato".

Ma innanzi a questa follia che ci strappa dal nostro essere per portarci lontano innanzi all'abisso del nulla ove si affoga ogni tradimento, il Destino della necessità afferma piuttosto l'impossibilità di questo tradimento, l'impossibilità per ciò che è di sciogliersi e dipartirsi dal suo essere. E il frammento di Parmenide suona allora qui come una promessa:

"indifferente è per me
il punto da cui devo prendere le mosse;
là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno".



1 Il presente articolo propone una sintesi e una parziale rielaborazione del saggio Essere Dramma e Destino, compreso in A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza, il prato, Padova 2007, pp. 73 - 111.
2 E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 126.
3 Sofocle, Edipo re, Esodo, trad. it. Mondadori, Milano 1982, p.133.
4 W. Shakespeare, Macbeth, V, VIII, trad. it. V. Gassman, Mondadori, Milano 1983, p. 137.
5 Ivi, p.130


Andrea Sangiacomo


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