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Mario Mencarini
Dic 2013
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Scheda pubblicata su Individuazione n°45
LA TENTAZIONE DUALISTA
Se perdere la distanza riflessiva nei confronti del Male significa essere travolti dalla dimensione istintuale della vita, aderire acriticamente al Bene significa irrigidirsi nella difesa di un ordinamento privo di ogni riferimento funzionale.
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C'era un tempo, in alcuni remoti angoli della Terra c'è ancora, dove il problema del male non esisteva. Era quello che Jung chiamava il "tempo del Padre" dove l'umanità era ancora bambina.
In quel tempo l'umanità viveva in uno stato di interezza naturale, fatto di "incoscienza, fango e sporcizia", uno stato che qualcuno ancor oggi ci invita ad ammirare.
Allo stesso modo, come l'ontogenesi ricapitola la filogenesi, ciascun individuo è stato, e a volte continua ad essere, un bambino. Anche il bambino sperimenta uno stato di straordinaria interezza, dove l'ottimismo non sperimenta i dubbi della ragion critica.
Per il bambino i genitori sono sempre buoni e, soprattutto, onnipotenti se devono soccorrerlo dal dolore o dalla paura.
Anche il Dio dell'umanità nel "tempo del Padre" è sempre buono, almeno col suo popolo obbediente, e, soprattutto, onnipotente.
Allo stesso tempo però, al calar del sole, l'umanità bambina viene attanagliata dalla paura del buio e dei "cattivi spiriti" che la notte genera. Allora si tirano fuori amuleti e formule magiche.
Anche i bambini, che di giorno sembrano un concentrato di rumoroso ottimismo, quando calano le tenebre diventano più timorosi e silenziosi. Chi più, chi meno, chiedono la compagnia di un genitore, ma a volte basta una certa coperta od un certo orsacchiotto. Il mattino dopo si sveglieranno, butteranno da un lato la coperta magica e correranno verso la vita avendo totalmente dimenticato le paure della notte.
Anche l'umanità bambina del "tempo del Padre" si risvegliava ogni giorno e, dismessi gli amuleti e le formule magiche apotropaiche, reindossava il vestito dell'ottimismo.
Quando ci confrontiamo con l'infanzia individuale, come pure con quei pochi residui di una umanità bambina che ancora sopravvivono isolati dalla civiltà, rimaniamo sorpresi nel constatare come possano coesistere due stati psichici così diversi e così privi di relazione l'uno con l'altro.
Il bambino, come il primitivo, passa dall'ottimismo privo di dubbi alla paura cieca, in una alternanza ciclica priva di sovrapposizioni. Gli stati psichici non si integrano l'uno con l'altro. In conseguenza dell'irradiamento solare e delle condizioni di illuminazione si manifestano due indipendenti personalità.
Potremmo dire che questo stato naturale costituisce un "al di qua del Bene e del Male", infatti il Bene ed il Male, così come noi li conosciamo, esistono in quanto termini antitetici di una relazione, ed in questo caso non dandosi alcuna relazione fra il Bene ed il Male, questi neanche esistono.
Quando lo stato di incosciente interezza si è rotto l'umanità si è trovata a fare i conti con il problema dell'origine del Male.
Lo stesso accade ancora ogni volta che in un bambino l'ingenuità dell'infanzia si incrina per lasciare il posto alla problematicità che definisce l'adolescente prima e poi l'adulto. Mi ricordo un sogno che fece mia figlia all'età di sei anni:
"Nella casa si trovava un laboratorio alchemico, pieno di filtri magici. Fra questi vi era un grande vaso contenente un importantissimo filtro capace di far sparire ogni male. Entrano dei ladri che sparando con una pistola fanno molti danni, e fra l'altro _ per la sua disperazione - rompono il prezioso vaso". Come il vaso di Pandora, la cui rottura provocava l'uscita di tutti i mali, così nel sogno l'onnipotenza dei genitori nel contenere ed allontanare il male andava in crisi. Con quel sogno lei usciva dal Paradiso Terrestre ed entrava nel mondo della contraddizione.
Soltanto alcune migliaia di anni fa tutto questo ha cominciato a cambiare e l'umanità, tentando di farsi adulta, ha cominciato ad uscire da questo stato di interezza naturale.
Sia sul piano filogenetico che su quello ontogenetico, il processo evolutivo può essere riassunto come un processo di progressiva coscientizzazione. Il soggetto attraverso ripetuti e continui salti riflessivi, prende via via sempre più distanza dall'oggetto, arrivando infine a contemplare il Tutto.
Quando l'umanità è uscita dal Paradiso Terrestre, lo ha fatto, appunto, mangiando il frutto dell'albero della conoscenza del Bene e del Male.
Da questo momento in poi la storia della coscienza umana, come pure la storia dello sviluppo psicologico individuale, possono essere visti come storia dei tentativi collettivi ed individuali, di realizzare una coscienza unitaria che riesca a fornire una altrettanto unitaria visione del reale.
E' quindi da un processo di separazione che ha inizio la storia della coscienza.
A questo punto si aprirono, e si aprono ancor oggi, due possibilità, due diversi modi di affrontare la separazione che si produce nell'interezza originaria: si spalancano cioè due diversi modi di vivere e di pensare.
Da una parte possiamo considerare le due parti come due enti primi, distinti e irriducibili, da sempre e per sempre in contrasto: il Bene ed il Male appunto. Dall'altra possiamo vedere le due parti come aspetti, momenti, articolazioni, di un unico ente.
Il primo modo prende atto della separazione e la assume come un dato di fatto immodificabile mentre il secondo patisce la separazione come un conflitto che anela a superare.
Una importante differenza la ritroviamo inoltre in ciò che riguarda la rappresentazione dello spazio e del tempo: nel primo caso, i due enti scaturiti dalla relazione limitano reciprocamente lo spazio a disposizione che pertanto è finito e il tempo, scandito dal loro eterno conflitto, è circolare, nel secondo caso lo spazio a disposizione dell'unico ente è infinito ed il tempo è lineare.
Questa diversa articolazione spazio-temporale la ritroviamo variamente rappresentata all'interno della psiche individuale quando, ancor oggi, ci poniamo ad osservarla.
Il primo modo si esprime nelle concezioni dualistiche mentre il secondo si articola nelle concezioni monistiche.
La visione che alla lunga si impone, a livello per così dire filogenetico, è quella monistica.
Certo la visione dualistica è immediatamente comprensibile, soprattutto a livello popolare, ed offre una visione del mondo che appare più aderente alla realtà.
Il Male ed i suoi innumerevoli effetti appaiono una realtà così immediatamente tangibile da tutti che ipostatizzare un principio del Male contrapposto ad un principio del Bene sembra cosa piena di buon senso.
Ma a lungo andare le visioni dualistiche, prive di dialettica, finiscono tutte per implodere. L'impossibilità di redimere il Male, di ricondurlo ad una qualche significatività, fa sì che la realtà materiale della vita, che del Male è l'incarnazione rispetto al Bene rappresentato dalla dimensione spirituale, se il dualismo è portato alle sue estreme conseguenze, sia vista come qualcosa che occorre assolutamente evitare. Da qui la teorizzazione della peccaminosità della procreazione e la ricerca della morte per colpire il Male, identificato appunto con la vita.
Se è la visione monistica a trionfare questo accade in una particolare modalità che il Cristianesimo inaugura. Il monoteismo non è raggiunto attraverso la dialettica fra gli opposti, per cui il Bene ed il Male si rivelano come due momenti di un'unica dinamica, ma tramite la negazione della realtà del Male (la privatio boni). In ogni caso non è detto però che il dualismo non si riproponga ogni volta che la visione unitaria fatica ad affermarsi.
Duemila anni fa il cristianesimo inaugura quindi il "regno del figlio". Già nel Vecchio Testamento, in particolare nel libro di Giobbe, erano rintracciabili gli embrioni di un cambiamento epocale, ma sarà poi il cristianesimo a porsi "la domanda: "Di dove viene il male? Perché questo mondo è così cattivo e imperfetto?
perché le malattie e le altre brutture?
perché l'uomo deve soffrire?" allora comincia la riflessione, che giudica la manifestazione del Padre nella sua opera, ed ecco il dubbio a esprimere la scissione dell'unità originaria. Si viene a concludere che la creazione sia imperfetta, anzi persino che il creatore non sia bastato al suo compito: la bontà e la potenza del Padre non può essere l'unico principio della cosmogonia. Quindi l'Uno deve essere integrato da un Altro. Il mondo del Padre viene con ciò essenzialmente mutato e sostituito dal mondo del Figlio" La coscienza umana tenta così di integrare in una unità dialettica l'Uno e l'Altro.
A livello dello sviluppo individuale, il "regno del figlio" lo ritroviamo nelle contraddizioni e nei conflitti dell'adolescente.
Via via che il bambino si distacca dall'unità originaria con la famiglia, egli si trova ad essere attraversato da forze che lo tirano e lo spingono in direzioni diverse. Egli sperimenta, per esempio, la lacerazione fra il bisogno di sicurezza ed il desiderio di autonomia. Viene in contatto in maniera nuova e diversa che nell'infanzia, con la morte, la guerra, le malattie.
Il mondo comincia ad apparigli brutto e insensato, ma al tempo stesso, le amicizie, gli amori, la sete di conoscenze lo portano ad immergersi totalmente nella vita.
E' in questo momento che l'individuo comincia a sentirsi in croce, quella croce tracciata dall'intersecarsi al centro dell'uomo dalla linea dell'orizzontalità con quella della verticalità, quella croce fatta di Bene e di Male che si configgono al centro di noi. Ed è sempre in questo periodo che con l'aumento della tensione comincia a farsi presente la scorciatoia della tentazione dualistica.
Ogni qualvolta ci sentiamo lacerati dalla contraddizione apparentemente insuperabile, la tentazione dualistica giunge a rappresentarci la possibilità di riposarci abbandonando la ricerca di una impossibile "coniunctio".
Nel momento in cui l'umanità, come il singolo individuo, escono dal Paradiso Terrestre che è un "al di qua del Bene e del male", entrano appunto nel regno del Bene e del Male, e in questo regno sperimentano la lacerante contraddizione degli opposti.
Da quel momento inizia il lavoro che deve portare l'umanità e il singolo individuo "al di là del Bene e del Male".
Questo compito sublime e terribile al tempo stesso non coinvolge naturalmente la totalità degli individui così come a livello filogenetico il processo evolutivo non ha coinvolto la totalità dell'umanità.
I cosiddetti nevrotici sono le persone che la vita, attraverso la malattia, chiama ad affrontare questo compito. A ben vedere sono i non-adattati, quelli cioè che a tutt'oggi hanno portato avanti l'evoluzione della coscienza umana.
A costoro la psicoanalisi oggi indica la strada che porta a riunificare il Bene ed il Male, l'amore e il pensiero, la vita e la riflessione, sfuggendo ad ogni tentazione dualista.
Gli altri, i non nevrotici, sono coloro che hanno aderito e che ancora aderiscono acriticamente ad uno dei due termini della contraddizione: i cosiddetti psicotici.
Si può diventare tali in due diverse direzioni ma con la medesima modalità: l'Io collabisce aderendo acriticamente ai contenuti dell'inconscio collettivo oppure ai comportamenti suggeriti dal conscio collettivo.
Se perdere la distanza riflessiva nei confronti del Male significa quindi essere travolti dalla dimensione istintuale della vita, aderire acriticamente al Bene significa irrigidirsi nella difesa di un ordinamento privo di ogni riferimento funzionale.
Invece al nevrotico non è concessa l'univocità, egli è attraversato dal conflitto e deve assolutamente mediarlo dialetticamente per non rimanere perennemente crocefisso. Se non vi riesce, se il conflitto gli appare insuperabile e la vita gli sbarra ogni via di fuga regressiva, dall'incontro con la psicoanalisi può nascere un via che lo conduca oltre la croce.
Nello spazio sacro che è definito dal setting analitico può accadere infatti qualcosa di straordinario.
Il paziente e l'analista costituiscono una coppia di contrari. Uno si pone come guaritore, l'altro come malato. Uno si pone come in grado di reggere e mediare le tensioni, l'altro come incapace a fare la stessa cosa. Uno è il Bene e l'altro è il Male. Uno è colui che sa, l'altro è colui che non sa. Uno è il maestro e l'altro l'allievo. Insomma i due della relazione costituiscono una coppia antinomica, i due termini contrari della relazione.
Occorre dire che ogni relazione può configurarsi o come relazione di potere oppure come relazione d'amore. Nella relazione di potere l'Uno cerca di sopravanzare l'Altro, per cui colui che ricopre il ruolo di potere intende mantenere tale posizione; invece colui che riveste il ruolo subalterno, o si identifica totalmente con la vittima e cerca coattivamente di rimanere sempre tale, oppure si ribella alla sua posizione subalterna e tenta attraverso l'aggressione di sostituirsi all'altro nel ruolo di potere.
Nella relazione d'amore le differenze di ruolo che si danno quando la relazione comincia tendono invece ben presto ad essere superate. E se questa modalità non può partire dal cosiddetto paziente che è tale proprio in quanto si vive come colui che solamente "patisce" le vicende della propria vita, l'analista che ripone la propria identità personale e professionale nella capacità mediativa e cioè nel riassumere in sé il patire e l'agire, e cioè i contrari, non può, pena la perdita di senso della propria esperienza umana e professionale, indugiare in un rapporto di potere.
Ecco allora che l'analista propone al paziente una modalità di rapporto non ancora da lui coscientemente sperimentata ma, proprio in quanto rimossa, pur sempre presente nell'inconscio. Se e quando questo salto, che ripetutamente l'analista compie nella relazione, stimola il paziente ad uscire dalla identificazione con la sua modalità passiva, può allora instaurarsi fra i due una nuova modalità di rapporto che noi chiamiamo intersoggettività, e che vede due soggetti umani farsi simili spinti dalla comune tensione erotico-conoscitiva.
Ecco allora che comincia così a realizzarsi uno spazio dove si può sperimentare "l'al di là del Bene e del Male"; una relazione dove non v'è giudizio né dialettica degli opposti ma soltanto un perenne dialogo. Il sogno che segue delinea mirabilmente questa prospettiva:
"Una giovane donna sogna che i suoi genitori, che in realtà hanno un rapporto d'amore molto intenso, vogliono separarsi. Sono molto tristi ma la cosa sembra inevitabile poiché i due hanno due diversi principi ispiratori: il padre fonda i suoi valori sulla conoscenza scientifica, la madre si basa sulla conoscenza intuitiva. La sognatrice cercando la soluzione al problema, prende una penna e piangendo inizia a scrivere alcune riflessioni. Ella sa che, procedendo in questo modo, unendo cioè il patire e la riflessione, rende manifesta a se stessa ed ai genitori la possibilità di superare la separazione."
Mario Mencarini
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