Home Anno 19° N° 63 Pag. 6° Giugno 2009 Ada Cortese


Ada Cortese
 CONFERENZE 

LE DIMENSIONI DEL PRINCIPIO FEMMINILE

Infiniti modi sono quelli in cui si può manifestare il femminile del mondo attraverso i simboli che ad esso alludono. Il femminile di dio, del mondo, dell'umanità e in questa, l'umanità, il femminile della donna.
Dal Convegno "La ferita in seno"

Il femminile può manifestarsi nel suo aspetto amoroso soccorrevole, verginale e fecondo, materno e abnegante come nel suo lato distruttivo, iroso, vendicativo, guardiano dell'orgoglio e dell'onore , sotterraneo piedistallo delle più crudeli e sanguinose guerre e faide. Incarna e simboleggia il mondo dell'eros, della seduzione, della libertà dalle regole sociali e dalla moralità costituita. Più aperta allo spirito dell'amore, più libera dalla lettera della legge. nelle sue rappresentazioni "Estreme": dalla Madonna amorevole, alla Kalì mangiatrice di uomini.
Di volta in volta (e a volte insieme) Orrenda Diavolessa o Santa protettrice.

Parafrasando Campbell e il suo "Dio dai mille volti"dedicato al principio maschile, il principio femminile, necessariamente in maniera sincrona e simmetrica, si manifesta come "Dea dai mille volti", mille nomi e nessuno: Maat, Mut, Nut, Iside sono solo alcuni dei nomi che la divinità femminile assume nell'antico Egitto.
Nell'Induismo è Kalì Madre divina e terrifica, è Lakshni, sorte, fortuna, bellezza e fertilità. E' Gea, Afrodite, Ecate, Demetra, proserpina, Artemide. Nel Buddismo è Tara dell'azione compassionevole....

Sul piano simbolico, proprio in quanto più libero dalla legge e dalle convenzioni, il femminile ha sempre agito le sue rivoluzioni in forma sotterranea, laddove sempre si è sentito a suo agio con la caotica logica dell'inconscio e "là" esso si fa Anima: agita per così dire il Soggetto, lo turba e lo perturba quanto basta per aiutarlo a predisporsi all'ascolto interiore.

Ne ha bisogno! Pena il suo restare muto, inerte, impotente, pesante nell'arcaica forma della pura istintualità agita. In altre parole sto presentando come prima e fondamentale dimensione del femminile la realtà dell'inconscio. Perché l'inconscio, proprio come il femminile concreto, è il luogo da cui proviene la vita, il nostro Io, la nostra coscienza. L'inconscio, secondo il modello junghiano, è una presenza pensante e senziente dall'inizio dei tempi, che porta in sé dunque una soggettualità e una saggezza ultramillennaria la quale, però, a poco serve se non è evocata dalla coscienza in una sorta di dialogo in cui le parti dialoganti spesso si scambiano il copione. Non sempre è la coscienza a condursi come soggetto e non sempre è l'inconscio a proporsi come immediatezza pulsionale, azione istintuale, natura immediata.

Se ricordiamo che l'inconscio è una espressione del femminile che, in quanto costitutivo della struttura psichica dell'essere umano a tutt'oggi, è presente sia nell'uomo che nella donna, allora possiamo dire che, come chiediamo e aneliamo ad un rapporto più intimo e dialogante tra l'uomo e la donna in carne e ossa, così, e per identiche ragioni, sarebbe desiderabile crescesse e si sviluppasse il dialogo interiore tra il femminile (inconscio) ed il maschile (coscienza) dell'essere umano, maschio o femmina che sia.

Lo sappiamo, è appena stato accennato, ma per completezza espositiva, diciamo chiaramente: che se alla identità psicologica della donna storicamente si sovrappongono per copione le qualità costitutive dell'inconscio, all'identità psicologica dell'uomo storicamente si sovrappongono le qualità costitutive dell'Io e della coscienza.

Proviamo a cogliere le corrispondenze: l'inconscio è un nome paradossale assai recente ed esso in ogni caso allude a qualcosa che si lascia solo intuire, è tale perché, tra le altre mille cose, è oscuro, muto, caotico, aspaziale, atemporale. E la coscienza (il maschile) se può preferisce evitarlo. Anche la donna è stata storicamente e nel suo copione psicologico lasciata ad una mera natura oggettuale, dunque muta come la materia con la quale simbolicamente coincideva. Come l'inconscio, anche lei fuori dalla storia, dalla cultura: puro oggetto o di piacere o di asservimento alla funzione biologicamente intesa della riproduzione.

Da queste considerazioni sparse dunque emergerebbe che all'uomo sia toccato il ruolo del conoscente, alla donna quella del conosciuto o del conoscibile. A lui di essere l'occhio che guarda a lei di essere l'oggetto guardato.

Ma questo è solo ciò che si mostra e che rimane vero fino a quando non si scenda un po' più nel profondo della psiche. Allora proprio le immagini conservate dalla creatività dell'inconscio, i miti e le leggende vengono in soccorso, molto prima che la scienza e la filosofia, a ricordare, a togliere il rimosso: il mito di Adamo ed Eva ricorda come i due ancora immersi nell'Eden della totale inconscietà fossero nudi e felici dentro quell'unico mondo che conteneva entrambi, l'essere prima della divisione, prima della frammentarietà, dunque prima della "creazione" della materia.
Dopo il primo atto conoscitivo, dunque dopo il primo peccato, essi si "vergognarono" e nascosero la loro diversità. Ovvero cominciò la rimozione necessaria ciascuno in sé dell'altro: il maschile del femminile e viceversa. E con questo ebbe inizio la loro specializzazione reciproca: l'uomo a nominare e la donna a riprodurre la vita. E ciò fu necessario per lo sviluppo della coscienza. Ma il mito ricorda della originaria nuda, trasparente convivenza unitaria.
C'è anche l'altro mito più lontano raccontato da Platone nel Convivio attraverso il discorso di Aristofane: circa i primi uomini androgini uomo (andro) e donna (gynè), uomo e donna insieme. Ma essi commisero peccato di arroganza nel progetto di scalare l'Olimpo così Giove li punì li separò e da allora ogni metà va alla ricerca di quella perduta in ciò che E. Zolla chiama "L'umana nostalgia dell'interezza".

Al di là del mito la nostra scienza ci dice che anche fisicamente, biologicamente, noi nasciamo portando dentro per parecchio tempo durante l'arco evolutivo da feto a corpo completo, le tracce forti della natura femminile e che solo verso la fine si definisce il nostro sesso. E dalle discipline umanistiche, filosofia e psicologia del profondo in particolare, sappiamo che anche la nostra psiche porta entrambi le funzioni, le facoltà; del maschile e del femminile. Non a caso si è parlato di copioni storici , non certo di vera sostanza identitaria.

Eppure sullo scenario del mondo e in quasi tutte le culture del mondo la separazione e la rimozione sono stati strumento di composizione sociale nell'ambito sociologico, e base psicologica per la predominante teoria della conoscenza in ambito psichico a tutt'oggi. Il sistema psichico si è strutturato secondo questo principio rimovente la totalità a beneficio dell'acquisizione di sempre nuova e determinata conoscenza e ciò è stato funzionale.

Esso è stato, ripeto, unilaterale, e ha consegnato i rapporti umani più significativi al modello dell'interdipendenza segnato da rigidità di ruoli e complementarità. La parte rimossa totalmente proiettata all'esterno. L'uomo proietta in questo modello la sua Anima, il suo femminile, nella donna empirica e la donna proietta il suo Animus, il suo maschile, nell'uomo.
Oggi esso mostra segni di anacronismo, dunque sempre più difettoso e inadatto alla vita. Accanto alla visione particolare, pare essere necessario anche il recupero di una visione più ampia. Pare essere necessario il recupero della parte rimossa.

E' dunque anacronistico quel sistema psichico, intendo, che continua a conoscere nella unilateralità, che insiste ad allontanare l'Altro da sè.
Quel sistema che afferma il puro principio di non contraddizione, la logica formale, che in gergo psicoanalitico coinciderebbe con la dittatura dell'Ordinamento edipico, impedisce il ricongiungimento con l'Altro il quale è sempre estraniato fino a che non lo si ritrova in sé.

Ebbene il primo altro che noi incontriamo dentro di noi e che di noi fa parte è l'inconscio, con i suoi infiniti modi di esprimersi, di farsi sentire, di venire a galla, di chiedere aiuto per aiutarci.
Nell'inconscio ritroviamo la donna che apparentemente è stata costretta all'atrofia intellettuale e a recitare la parte dell'oggetto. Solo che attraverso l'inconscio la donna e il femminile cominciano a parlare e a raccontare la loro/nostra storia e ci arricchiscono di tutti i loro doni il primo dei quali è la restituzione in forma simbolica, dunque sintetica, olistica e aperta, della storia umana, personale come senso come percorso verso una propria destinazione individuativa, terrestre e universale. Si scopre che mentre la coscienza andava e si perdeva nella ricerca estrovertita, "dentro" qualcuno si faceva scrigno, radice, casa e compensava il necessario esilio e il necessario errare della coscienza.

Va da sé che i due fondamentali lati del Femminile, quello della Donna e quello dell'inconscio, procedano con dinamiche parallele e interdialoganti ad un tempo. Si sa da sempre che le donne hanno maggiore familiarità e facilità ad ascoltare il mondo delle emozioni, dei sentimenti, dell'interiorità. E da sempre sanno convivere con il principio di contraddizione. La loro stessa fisicità porta gli attributi della generosità, del vuoto accogliente e rotondo, della paziente attesa, della disponibilità verso il vivente, del nutrire e dare piacere, dell'abnegazione. Reggono le tensioni dell'affettività meglio dei loro compagni di vita, reggono da sempre meglio, perché a questo erano destinate e preparate, il mondo delle contraddizioni quotidiane della vita: l'amore in tutte le sue declinazioni più domestiche, la malattia, la sofferenza e la morte. Insomma esse traggono queste qualità dall'essersi per millenni lasciate permeare più dal mondo sotterraneo dell'inconscio: portatore di talenti e di canali alternativi alla conoscenza che non dal mondo sociale e dalle sue leggi (per quanto tempo le donne sono state chiamate streghe e bruciate per una loro diversa conoscenza della medicina che esse sapevano cogliere direttamente dalla natura?).

Fin quà si è più volte affermato "è stato bene", "è stato funzionale" , sottointendendo il paradigma del concetto di bisogno. Solo che nell'ambito umano il bisogno non si fa immediatamente riconoscere. Intanto sappiamo che non può essere inteso come bisogno qualcosa di costitutivo l'esserci dell'ente. Se sono un animale che respira non posso dire che mio bisogno è l'aria perchè non esisterei senza di essa. Nè può essere inteso bisogno qualcosa la cui assenza non mi danneggia in modo tale da impedirmi l'esistenza.
Ecco, è difficile allora parlare di bisogno umano se non nell'ambito dell'esistenza umana. Essa è esistenza fondamentalmente relazionale. Ciò significa che la relazione è il luogo entro cui nascono i nostri bisogni. Essi saranno il prodotto e il cibo di cui la nostra vita relazionale avrà bisongo per riprodurre se stessa.
Se la relazione vive di interdipendenza essa avrà bisogno della nostra bisognosità e noi svilupperemo bisogno di partners bisognosi.
Se la relazione vive di intersoggettività essa avrà bisongo della nostra libertà e noi svilupperemo bisogno di parteners liberi.
Per disgrazia e per fortuna la relatà è ibrida e noi altaleniamo tra l'uno e l'altro bisogno oscillando così tra celle da carcerati e cieli aperti.

Certo è che con l'evolvere della consapevolezza si è fatto sempre più chiaro il bisogno dell'umanità. Lo aveva già pensato e sviluppato nel concetto la filosofia, lo aveva ulteriormente ben espresso Marx filosofo:
Nei Manoscritti economico-filosofici del '44 K. Marx, applicando il rapporto hegeliano Padrone - Servo al rapporto Uomo - Donna, così scriveva:
"Il rapporto immediato, naturale, necessario dell'uomo con l'uomo è il rapporto del maschio con la femmina.
In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell'uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell'uomo con l'uomo, allo stesso modo che il rapporto con l'uomo è immediatamente il rapporto dell'uomo con la natura, cioè con la sua propria determinazione naturale. (...) In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell'uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l'essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell'uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l'altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità".

La crisi di superficie che dilaga e ricopre tutto il nostro piccolissimo e bellissimo pianeta azzurro può portare cose positive per l'umanità. Tante. Tra cui anche la necessità di fermarsi un attimo e ridefinire i veri bisogni umani.
Ma chi e cosa indurranno gli uomini a fermarsi e ad ascoltarsi se non, ancora una volta, il principio femminile? Il silenzio, il vuoto, la nudità, l'umiliazione prima e l'umiltà dopo, la pazienza, il distacco, la totale pietas, per ascoltare e raccogliere ciò che di prezioso tutto il tempo dell'universo fin qua ha anche per noi e attraverso di noi maturato: una consapevolezza di essere parte del resto del mondo e non più parte contro il resto del mondo da sottomettere, zittire, oggettualizzare. Sarebbe il passaggio dall'esilio al ritrovamento, simbolicamente la ricostituzione dell'androgino universale in questa ritrovata interdipendenza soggettuale tra il maschile/uomo/conoscente/soggetto/coscienza (che saprà di sé anche come donna/femminile/materia/inconscio/conosciuto/oggetto...) e il femminile/donna/conosciuto/oggetto (che saprà di sé anche come uomo/maschile/coscienza/soggetto...).

In tutto questo io credo si inscriva la reale identità di ognuno di noi: portatrice nella sua personalità storicamente determinata di un cocktail di variabili e interconnessioni che ne fanno quella particolare ed unica persona sacra proprio perché irripetibile, e al contempo, espressione - fin nella sua più piccola conflittualità come nel suo più grande dramma - di una grande commedia universale, attore della divina commedia.
Restare rinchiusi nei confini di una delle due, porta comunque ad una sorta di impoverimento, dimezzamento direi, nella percezione della nostra vita: chiusi solo nel particolare nel primo caso o arroganti e sprezzanti verso gli umani drammi nel secondo.
Il recupero della nostra storia prima del nostro venire al mondo, qualunque cosa davvero possa significare, resta sul piano simbolico, la porta efficacissima per ben altro vissuto verso ogni aspetto della nostra vita. Nessun senso è recuperabile nel particolare, grande energia amorosa nasce invece dal sentirsi parte di un fiume che prima o poi arriverà a casa, al suo mare.

Se fin qui chi ci parlava di senso e di superiore visione erano i maschi e il maschile, oggi io credo possa convincere solo il femminile, l'ascolto interiore di un Dio che si è nascosto là per potersi proteggere da tutte le deformazioni che di lui parlando e predicando hanno prodotto gli uomini. Parlar di dio e parlare della religiosità della nostra vita è una cosa sola, significa parlare della necessità di restare o farsi interi, redigere, rilegare in un solo libro le disperse esperienze frammentarie.
Che della religiosità dell'umanità si faccia oggi portavoce il femminile è cosa che segnala la rivoluzione in atto già preannunciata da R.M. Rilke nelle parole che qui vi voglio riportare:

"Le donne, in cui la vita dimora più immediata, più fruttuosa e confidente, dovranno in fondo diventare esseri umani più maturi, più umani che il leggero maschio, il quale, non tratto oltre la superficie della vita dal peso di alcun frutto corporale, presuntuoso e affrettato, spregia quello che crede di amare.
Questa umanità della donna sopportata in dolori ed umiliazioni, quando avrà gettate da sè le convenzioni della esclusiva femminilità nelle metamorfosi del suo stato esteriore, verrà alla luce, e gli uomini che non la sentono oggi ancora venire, ne saranno sorpresi e colpiti.
Un giorno esisterà la fanciulla e la donna, il cui nome non significherà più soltanto un contrapposto al maschile, ma qualcosa per sè, qualcosa per cui non si penserà a complemento e confine, ma solo a vita reale: l'umanità femminile".

Non voglio spendere troppe parole per quei fenomeni da baraccone che sempre più diventano certe donne, che sembrano non averne abbastanza dell'essere oggetto, e invece di ridurre dunque la loro inconscietà ci sguazzano volgarmente sperando di farla in barba alla gravità e alla vecchiaia. E dagli, dunque, con tette alla 7ma, fondoschiena sopraelevati e labbra canotti, zigomi gonfi, via alle donne bioniche che uomini sensibili sapranno apprezzare, sicuramente, quelli sì, alla ricerca della dea del mondo!
Non è per criminalizzare niente e nessuno, ben venga un intervento ricostruttivo dopo una esperienza spesso shockante, tutto ciò che ci aiuta a stare bene con noi stessi. Certo trovo comunque pur nelle sintomatologie caricaturali che riempiono di sé le campagne mediatiche, una domanda urgente che chiede risposta ed è domanda di senso senza i quali tutto riprecipita al di quà dell'umana intelligenza. Ma è pur vero che avanti a certe immagini la mia è una risposta viscerale come di chi assiste alla profanazione e allo scempio di un corpo sacro. Ed è pur vero che il crescente ricorso "all'azione" su scala sociale - persino per cambiarsi i connotati, al fine di stare meglio con se stessi e con gli altri - sovrapponendosi in maniera impressionante a ciò che in psicologia chiamiamo "acting-out" svela drammaticamente la deriva verso la psicotizzazione della mente occidentale sempre meno capace di pensiero simbolico, sempre più concretistico. Allora inevitabile è il concretismo, l'agire compulsivo.
Nominando per un istante l'argomento del convegno, la ferita in seno, essa può alludere alla ferita prodotta dal tumore, una spaccatura interna ed interiore, un corpo estraneo che costringe all'interrogazione di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Può alludere ad una cattiva convivenza con la propria identità declinata tutta secondo classica identificazione al femminile materno mediterraneo nel quale tutto è amplificato, drammatizzato come le stesse antichissime statuette che alla grande Madre erano dedicate.
A queste problematiche il soggetto cerca di rispondere come può. Ho visto anoressiche bendarsi il loro seno e nasconderlo sotto enormi pullovers. Anoressia, rapporto conflittuale con la madre (guarda caso simbolicamente tutt'uno con il farsi ella stessa cibo), rifiuto del seno (come del cibo) vanno spesso insieme. Liberare il soggetto dal mondo circoscritto e coercente in cui si lascia fantasmaticamente vivere è l'obiettivo primo di una analisi che già dispone in questo soggetto di una ribellione evolutiva necessitante di un più ampio sguardo.
La ferita reale al seno può essere vissuta in modo diverso a seconda della consapevolezza del soggetto:
una ferita narcisistica e un attacco alla integrità femminile amplificati se vissuti in un orizzonte ristretto ai canoni della bellezza e dei ruoli così come vengono sventolati dalla coscienza collettiva e dalla produzione.
O essa può essere vissuta, insieme a questa prima umanissima reazione, come l'apertura ad una ferita interiore che è anche passaggio, strada da percorrere nella tensione del non sapere dove porterà questo canale. Io spero che qualunque sia il livello del dolore e la profondità della ferita, qualunque sia il livello della sofferenza esistenziale, essi possano portare verso un "sentire" e un "comprendere" la vita nel momento e nel suo srotolarsi, sempre più ampio . Un cammino individuativo esso stesso capace di farci scoprire interiormente a noi stessi. Spesso la scoperta è sensazionale e l'esperienza sa trasformarci, grazie alla ferita, anche in guaritori.


Ada Cortese


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