Home Anno 19° N° 63 Pag. 2° Giugno 2009 Cristina Allegretti


Cristina Allegretti
 RICERCHE 

IL LAVORO

"Esiste qualcosa di più bello a vedersi di colui che non ama obbedire: è colui che non ama comandare" (S. Weil)

La parola lavoro, che deriva dal latino labor e che significa fare con fatica, compare nella nostra costituzione la quale afferma all'articolo 1. che " L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.".
Che significato profondo ha il lavoro?
E se esso è un diritto a cosa rinunciamo nel non poterlo esercitare?
L'uomo rischia oggi, di perdere il suo "istinto di operosità" e di venire limitato nella sua crescita non solo economica ma anche spirituale; va in frantumi la percezione di questo diritto e insieme va in frantumi la percezione del collante sociale con cui tale diritto al lavoro coincide e che esso, dunque, pure intensifica.

Perdere l'attività lavorativa rischia di indurre il vissuto di una grande perdita di senso esistenziale. Perdere il lavoro comporta l'indebolimento del vissuto di partecipazione ad un organismo sociale sovraindividuale basato su una necessaria interdipendenza economica la quale non ha natura solo materiale ma che rimanda ad una interdipendenza identitaria sia verticale-universale che determinata-orizzontale, che rimanda, dunque, alla identità degli uomini rispetto agli altri uomini.
Nella dimensione psichica che struttura la maggior parte degli umani, la mancanza di lavoro, inteso come attività socialmente utile e riconosciuta attraverso la "giusta mercede", lede nel profondo la dignità dell'uomo in quanto lo priva del suo essere homo faber, l'uomo che agisce, collocandolo invece in un mondo oggettuale con il quale l'uomo non riesce più a relazionarsi, ridotto egli stesso a oggetto tra oggetti. Creiamo sempre di più un mondo popolati da oggetti e perdiamo il colloquio.

"Abbiamo finito per perdere di vista il lavoro necessario a produrre le merci e finiamo per ridurle ad aggregati di simboli? Si è talmente oscurata la percezione delle merci come lavoro cristallizzato, frutto dell'ingegnosità, della fatica e spesso, dello sfruttamento di innumerevoli uomini, donne e ragazzi, da dimenticare che il lavoro trasforma non solo ciò a cui si applica, ma anche chi lavora? Considerato nella lunga durata, il lavoro è realmente passato da maledizione biblica, espiazione della colpa commessa nell'Eden a segno calvinista della salvezza, e da emblema della dignità e dell'"auto-emancipazione dell'uomo" a penoso e noioso strumento di sopravvivenza?" (R. Bodei "La vita delle cose").

Per l'uomo il lavoro è simbolo di trasformazione ed egli, incarnando Efesto, può trasformare le materie prime in prodotti finiti, la sua intelligenza in tecnica intelligente; può creare mondi, ricchezza. Proiettato in una esistenza caotica, l'impossibilità e o incapacità di fare alcunché blocca il suo esistere e minaccia in maniera assai preoccupante la sua soggettività perché non lavorare è non creare, è non vivere. Il mondo dell' oggetto si espande a discapito del soggetto che sappia riconoscergli il senso.
Il lavoro scandisce il tempo dell'uomo, la sua progettualità.
Ora, riflettendo sul lavoro ci accostiamo alla filosofia profonda di Heidegger il quale vedeva nel tempo e nella storia l'accadere dell'essere attraverso l'esserci dell'uomo.

Il tempo si scandisce anche nell'accadere e nel concretizzarsi di un progetto che da pura idea diventa fruibile esperienza, nello svolgersi di un processo che ha un suo mezzo e un suo fine nel mondo del sensibile.
Il lavoro è il processo attraverso cui l'uomo diventa demiurgo del suo mondo e può concretizzare nuovi mondi. L'uomo attraverso il suo lavoro fa esperienza della dimensione delle idee ed esperienza del passaggio dalle idee al concreto. Egli può assistere attraverso il lavoro alla dinamica dell'esistenza stessa e amplificarla sempre di più.
Questo potere rende inevitabilmente l'uomo responsabile assoluto del suo operare, del suo fine come dei suoi mezzi.
Nel nostro fare permettiamo all'essere di accadere e diventiamo "pastori dell'essere".

L'essere umano ha instaurato oggi un rapporto negativo con il lavoro e, incapace di mantenersi in uno stato soggettivo rispetto agli strumenti, è diventato oggetto dello strumento stesso.
Forse, riappropriandoci del significato profondo che il fare, il lavorare, il progettare, il concretizzare, portano intrinsecamente in loro stessi, affrancandoci dalla interpretazione cristiana che vede il lavoro come punizione divina, forse, ripeto, potremmo liberarci sia dal concetto di lavoro inteso come alienazione che dal concetto e dalla percezione del lavoro inteso come mero prodotto del capitalismo cieco e corrotto.


Cristina Allegretti


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