Home Anno 17° N° 61 Pag. 7° Luglio 2008 Cristina Allegretti


Cristina Allegretti
 SCHEDE 

LA LEZIONE DELLA CIVILTÀ INCA

IL rapporto tra l'uomo e la natura

La natura e la civiltà, la physis e la thecnè, oggi più che mai il tema del rapporto tra l'uomo e la natura, la terra, è attua

 

La natura e la civiltà, la physis e la tekne,  ovvero il tema del rapporto tra l'uomo e la natura, oggi più che mai  è drammaticamente compromesso.

Se da un lato, la corrente autodistruttiva ( il pensiero dell'uomo calcolante e dominatore), ci sta sommergendo, dall'altro lato, correnti più sotterranee, che agiscono pensieri di altra natura, cercano di trovare nuove forme di sintesi tra l'uomo e la terra (la vita).

Una delle manifestazioni più cruente del rapporto tra natura e cultura,  è l'architettura. Ci coglie sgomento il confronto tra il presente e il passato: le nostre città e i reperti archeologici.

L'onda distruttiva del pensiero dominante mortifero e immorale impasta il nostro quotidiano, e ci costringe ad essere partecipi , nostro malgrado, di una crescente scissione tra noi e la natura.

Vi sono sempre dei pensieri sotterranei che vanno contro corrente. Nell'architettura tale contrasto lo incontriamo nell'architettura organica, la quale "è una branca dell'architettura moderna che promuove un'armonia tra l'uomo e la natura, l'integrazione dei vari elementi artificiali propri dell'uomo (costruzioni, arredi, ecc), e naturali dell'intorno ambientale del sito. Tutti divengono parte di un unico interconnesso organismo, spazio architettonico. Il fondatore di questo tipo di architettura è Frank Lloyd".(Wikipedia).

Contro la scissione che sempre di più viviamo nella nostra quotidianità, nel nostro essere costretti ad abitare luoghi nati da una logica violenta, dedico alcune pagine alla visione unitaria e integrata dello spazio che avevano gli Inca. Uno spazio da sempre considerato luogo sacro.

 

Il sacro e la natura

"l'arte primitiva, è sempre una schietta emanazione dell'incosciente sentimento della natura e si rivolge in un potente inno alla vita animale, con la quale l'uomo primitivo fa sempre corpo..” (1)

 

 

Origini mitiche dell'Impero Inca.

Secondo Alfred Métraux, l'Imperatore Pachacuti, che regnò dal 1438 al 1471, fu realmente un personaggio storico, mentre per quanto riguarda gli imperatori che lo precedettero, sui cui nomi la maggior parte dei cronisti è concorde, spesso non si riesce a delineare la differenza tra mito e storia.

Il termine inca può essere tradotto con sovrano o con nobile.

Gli informatori indigeni per esaltare gli Inca agli occhi dei conquistatori, spesso parlavano delle popolazioni sottomesse degli Inca, cavernicole, e selvagge, e poi civilizzate dagli Inca.

 

Gli ayllu

La tradizione, a proposito dell'origine del clan, ci parla degli ayllu (lignaggi) "che costituivano le molteplici comunità agrarie dell'antico Perù. Si pretendevano uscite da un lago, una roccia o una caverna - il loro pakarina - ai quali tributavano il culto".

Gli ayllu degli Inca sarebbero usciti da "tre finestre", certamente tre caverne, di cui quella al centro aveva lasciato passare i quattro fratelli: Ayar Manco, Ayar Cachi, Ayar Uchu, e Ayar Auca, e le loro sorelle-spose.

I quattro fratelli, seguiti dai dieci ayllu usciti dalle caverne laterali, si incamminarono verso Cuzco, sostando per un anno o due in qualche luogo, fondando ad ogni sosta un villaggio.

 

Manco Capac

La leggenda continua con Ayar Manco, meglio conosciuto come Manco Capac (il primo re leggendario), che astutamente riesce a sbarazzarsi degli altri fratelli, uno dei quali viene trasformato in pietra e diventa l'idolo Huanacauri, che in epoca imperiale presiedeva ai riti d'iniziazione dei giovani nobili.

Manco Capac continuò la migrazione, fermandosi nella valle di Cuzco, dove colpì il suolo con un bastone d'oro che di tanto in tanto lanciava per saggiare il terreno. Laddove il bastone si conficcò profondamente nel terreno decise di fermarsi, costruì una capanna dal tetto di paglia che sarebbe diventata il tempio del Sole, e resistette alle popolazioni della regione che si opponeva ai nuovi arrivati.

Manco Capac parrebbe simbolizzare l'umanizzazione della natura che sceglie e decide dove instaurare la civiltà. Il mito, secondo Baudin, potrebbe essere visto come l'inizio di una mediazione per superare la "paura originaria" (della creatura rispetto alla creazione, dell'uomo rispetto alla natura).

 

Le dinastie.

Le dinastie dei re preistorici sono ripartite in periodi di mille anni, alla fine dei quali intervengono cataclismi. Ad ogni millennio corrispondono un Sole ed una umanità diversa: il primo millennio fu l'epoca dei Vari-Varacocha-runa (gli uomini del dio Virachoca), il secondo quello dei Vari-runa (degli uomini sacri), il terzo dei Purun-runa (degli uomini selvaggi), l'ultimo millennio fu quello degli Auca-runa (dei guerrieri).

Ogni millennio fu contraddistinto da cataclismi.

La fine del primo, preannunciato da infausti presagi, fu contraddistinto da catastrofiche guerre e da pestilenze, e dagli oggetti che si rivoltarono contro i padroni (si trova un affresco Mochica che raffigura la catastrofe).

Nel secondo millennio il sole scomparve per venti ore alla vista dei mortali.

 Il terzo millennio finì con un diluvio.

 Il quarto millennio non fu segnato da catastrofi ma dagli uomini decadenti che, divenuti effeminati, si diedero alla sodomia, ma furono rigenerati dal fondatore della dinastia.

 

 Il Tahuan Tinsuyu

Il Tahuan Tinsuyu (l'impero Inca) si chiamava così per le sue quattro grandi divisioni denominate Quarti (Suyu): il centro era Cuzco la capitale, mentre i quarti erano divisi in quello di Nord-Ovest (Chinchaysuyu), quello di Sud-Ovest (Cuntisuyu), quello di Nord-Est (Antisuyu), e quello di Sud-Est (Collasuyusu), il più grande.

Ciascuna delle quattro parti aveva un capo, un Apo, fratello o zio dell'imperatore, sebbene le decisioni importanti venissero prese dall'Inca in persona, dallo "Sapa Inca", direttamente discendente da Inti, il Sole.

 

Il llautu.

Il simbolo della dignità inca era il llautu, una treccia di tessuto di diversi colori, che cingeva la testa sei o sette volte e che sosteneva il maskapaicha, la frangia rossa che cingeva la testa, e di cui ogni elemento passava attraverso un tubicino d'oro; inoltre il re portava una bacchetta sormontata da un fiocco e da tre piume di uccelli rari, alle orecchie aveva due enormi dischi d'oro, sul petto un disco anch'esso d'oro, ai polsi grandi braccialetti e in mano teneva una mazza.

Il re era un personaggio sacro e semidivino, dopo la morte diventava un dio, eguale alle più grandi divinità dell'impero quali il Creatore, il Sole, il Tuono, la Luna.

 

Garcilaso de la Vega.

Garcilaso de la Vega ci narra che quando i sovrani conquistavano una nuova terra, la dividevano in tre parti: la prima era per il dio Sole, la seconda per il re, e la terza per gli abitanti del Paese.

"Appropriandosi d'una parte del territorio dei vinti, gli Inca alternavano, ma non trasformavano il regime fondiario esistente; lo facevano pendere a loro vantaggio e a quello dei loro déi tutelari. Infatti gli Inca non introdussero alcun cambiamento di struttura..Gli Inca si contentavano di rivendicare per se stessi e per i loro dèi i diritti che, da tempi immemorabili, erano riconosciuti alle stirpi dei capi e agli idoli della regione. In tal senso, era meno la comunità ad adattarsi ad una nuova organizzazione quanto piuttosto la dinastia degli Inca che, identificandosi in qualche modo all'ordine antico, metteva radici nella comunità.(Métraux)

 

Le corvées.

Tutto il peso della nuova ripartizione delle terre e delle corvées ricadeva sui contadini che, oltre agli obblighi verso i loro capi e le loro divinità tradizionali, dovevano ora coltivare i campi dell'Inca e quelle dei nuovi déi.

Il tributo che veniva pagato all'Inca era la forza lavoro (la mit'a) , che veniva imposto dall'Inca e dai suoi governatori quando c'era bisogno di una manodopera abbondante, ad esempio per la guerra, o per costruire nuove strade, o edifici, per la coltivazione dei campi del dio Sole o di quelli di proprietà dell'Inca stesso.

Il sistema amministrativo degli Inca era concepito in primo luogo per assicurare il funzionamento efficace delle corvées, ovvero al buon funzionamento dell'enorme risorsa umana che doveva essere tenuto sotto controllo attraverso continui censimenti e grazie ad una gerarchia di funzionari.

 

La cosmologia

La struttura dello Stato Inca, non può essere separata dalla loro cosmologia.

Essa è: "una cosmologia che si direbbe calcata a misura sull'ambiente, su quell'ambiente così duro per l'uomo che, come abbiamo già visto, avrebbe dovuto dissuadere da qualsiasi forma di insediamento: orbene, il peruviano precolombiano creando, per così dire, una cosmogonia ambientale è riuscito invece a sentirsi parte attiva entro tale ambiente e a dominare gli spazi infiniti inquadrandovisi in un discorso logico e nello stesso tempo dilatando il proprio io e quello degli altri elementi da cui è circondato, fino a ricondurli tutti all'Essere Supremo" (2)

Essi consideravano il mondo diviso in due: il mondo di sopra "Hanay Pacha" e il mondo di sotto "Uku Pacha", mentre il centro era Cuzco, dove nacque Viracocha.

L'universo andino, al suo interno, è diviso in quattro parti orizzontali e in tre verticali. Le quattro parti chiuse in se stesse corrispondono ai quattro punti cardinali, la verticalità è concepita come un'asse che taglia in due l'universo.

Il tempo e lo spazio sono un'unica dimensione, sono in continuo movimento, formando dei cicli.

Lo spazio avanti a noi è il passato Nawpa-Pache, il futuro Quipa-pacha, e significa "tempo dietro".

 

L'any, la mit'a,  la pallqa, e il tinku.

I principi più importanti sono : L'any, la mit'a,  la pallqa, e il tinku.

Il primo è la reciprocità, che dà solidarietà all'ordinamento, l'any è il matrimonio, il lavoro nei campi, offrire qualcosa a qualcuno sapendo che così facendo si avrà qualcosa in cambio.

Dall'any, deriva la mit'a, che permette di vincolare ed unire due sistemi: il circuito temporale del calendario ed un circuito spaziale di organizzazione di lavoro politico e sociale.

Questi due principi formano un collante sociale attraverso cui lo stato può prendere forma. Grazie ad essi la civiltà prende forma dalla stessa natura andina, come si vedrà meglio negli ultimi due principi cosmici.

Se la pallqa è "la biforcazione di due canali di irrigazione il cui percorso delle acque è legato all'opera degli uomini  e può verificarsi in uno come nell'altro senso", il tinku, è invece una biforcazione irreversibile, per esempio come l'affluente di un fiume, o l'incontro di un seme con le forze atmosferiche: "è insomma l'incontro tra unità che provoca la nascita di una nuova entità che può essere anche sociale".

Tale universo è in equilibrio, però può essere sconvolto da forze esplosive, dette amaru, forze che però tendono a riassestarsi e che sono relazionate all'acqua e personificate dal serpente bicefalo ma anche dal mostro felino e dal fulmine.

L'uomo Inca si inserisce dentro il tutto, portando equilibrio alle forzo cosmiche che si alternano.

Nella totale indifferenziazione in cui gli Inca vivevano: il cosmo, l'individuo, la natura e la loro civilizzazione, lo Stato diventa l'identità capace di dare equilibrio alle forze cosmiche e a se stessi; dalla loro osservazione della natura, nacque la loro concezione cosmologica capace di immobilizzare la loro esistenza e di porla all'interno di un mondo abitato da dei.

 

L' organizzazione religiosa. 

Parallela all'organizzazione civile, vi era una organizzazione religiosa. Il rango dei sacerdoti variava a seconda del santuario a cui erano assegnati, sebbene la più alta figura fosse il vilca-oma, il sacerdote del Sole, il quale era sempre parente dell'Inca.

La magia e la divinazione venivano usate sia per ogni atto importante dell'Inca, che nella gestione dell'amministrazione e nelle sentenze giuridiche, mentre in altre circostanze, ad esempio se la pioggia si faceva attendere o se l' imperatore era ammalato, si praticava il rito della confessione, capace di riequilibrare la natura.

L'hocha (la colpa rituale) veniva eseguita da una sola persone o da tutta la comunità, a seconda dei casi; ad essa "ci si preparava con digiuni, che duravano cinque giorni. Il sacerdote ascoltava il pentito e lo sollecitava affinché non gli nascondesse nulla. Del resto, se cercava di usare sotterfugi, l'esame delle viscere d'una vittima o qualche altro procedimento divinatorio sarebbe bastato a smascherarlo. Il confessore colpiva con leggeri copi di pietra la schiena del pentito, pronunciava preghiere, poi tutti e due sputavano su una manciata d'erba che veniva gettata nella corrente del fiume. A volte anche il colpevole si lavava delle sue colpe nelle acque e rispettava diversi interdetti religiosi".

All'interno della gerarchia religiosa degli Inca, occupavano un posto privilegiato le vergini del Sole il cui nome in quehua, significava "donne scelte". Esse venivano reclutate nelle varie comunità e rinchiuse in una specie di convento finché l'Inca non decideva la loro sorte. Quelle che non venivano scelte come concubine dell'imperatore o degli alti funzionari pubblici, o che non venivano sacrificate, venivano assegnate al servizio dei templi, tessevano i vestiti per gli idoli, per l'Inca, e preparavano la chica.

 

 

Il culto dei morti.  

L'uomo inca, rendeva vivo tutto, creava all'esterno le tracce divine onde rispecchiava la propria esistenza, la magia e l'arte s'intrecciavano nella ricerca di rendersi amica la natura e nello stesso tempo cercavano di dominarla.

Le huaca (guaca) sono un esempio di tutto ciò: esse sono divinità immaginate antropomorfiche, esse erano le costellazioni, erano le sorgenti (dimora degli déi), erano le rocce e i monti creduti eroi pietrificati, erano i defunti, le tombe e ogni luogo sacro, in cui si trovavano le Hiaco, gli esemplari di ceramica trovati a centinaia di migliaia nelle tombe.

Ciò che faceva paura si divinizzava, anche i morti e così la morte. Essa si trasformava in vita: infatti i morti per gli Inca, diventavano invisibili, invulnerabili, e creavano preoccupazione ai vivi in quanto questi ultimi pensavano che se si fossero trascurati i morti questi li avrebbero perseguitati. Credevano nell'immortalità dell'anima, nessuno moriva. Il cadavere fasciato e piegato diventava un "non - morto".

 

 

La medicina.

La malattia era causata da forze soprannaturali, ed era curata dall'arte occulta dell' ichuru, o dal sapere empirico dell'ancoyoc, o dell'hampicamayok.

La malattia veniva considerata dagli Inca e dai popoli dell'America precolombiana "come una presenza indipendente, temporaneamente incorporata nell'uomo, ma il tutto essendo a lui estraneo: i sintomi non sono che le manifestazioni secondarie di questa presenza interna che "possiede" o che "occupa" fisicamente il paziente" (Charles Coury). 

 

L'arte

Invocando il tuo nome

mi avvicino a Te,

Madre Terra.

Spargendo fiori ovunque

mi avvicino a te,

Madre Terra.

 

 

Potrebbe essere questa antica preghiera, ad accompagnarci dentro la dimensione del rapporta che gli incas avevano con la natura e da cui emerge il loro atteggiamento devoto e al tempo stesso spaventato.

Gli Inca furono un popolo capace di scrivere la loro storia sulle pagine delle pietre delle loro costruzioni, delle loro strade, e dei luoghi sacri a cui attribuivano un particolare potere magico-sacro.

Furono un popolo capace di fare coincidere la natura, l'uomo e Dio, dove l'artista seguendo i consigli dei sacerdoti creava gli oggetti, che diventavano: "energia, forza vitale concentrata e offerta come dono agli dei. Alleato con la natura, l'uomo crea in punta di piedi, senza sopraffazione, senza violenza per riavvicinarsi agli dei e sgominare le forze del male.

La loro è un'arte dove la vita e la morte, la quale è sempre in agguato, sono unite in una tessitura compatta come quella dei ponchos.

L'arte è unita allo struggente desiderio d'immortalità, l'artista inventa per la vita nuove forme magiche; l'arte serve alla comunità per poter fermare la propria esistenza, non esiste l'arte per l'arte. Essa si unisce alla magia, all'organizzazione sacro-religiosa, essa diventa rituale, celebrativa, commemorativa, essa è il confine tra il divino e l'uomo" (3)

 

 

L'architettura.

Nella concezione di se stessi e del loro compito, ovvero quello di equilibrare le forze cosmologiche, si trova il senso più profondo dell'architettura incaica.

Quest'arte fu capace sia di dare concretezza alla loro “geometrizzazione” del tutto, che di restituire alla natura un luogo dove abitare, come loro riuscirono ad abitare in essa.

Il rapporto tra uomo e natura per gli Inca era così profondo e biologicamente simbiotico che spesso, come ci dice Gimpera, i villaggi furono costruiti in luoghi rocciosi o in zone desertiche, per risparmiare la terra coltivabile.

"Gli Inca per sistemare i loro edifici e gli insediamenti hanno dovuto spesso ricorrere a grandi trasformazioni del territorio. Per conquistare terreni da costruzione alla montagna, gli Inca livellarono colline, riempirono depressioni, costruirono terrazze, in modo analogo a quanto fecero per conquistare terre agricole. Queste trasformazioni testimoniano il potere che detenevano gli Inca sulla natura e la loro abilità per adottare e combaciare il territorio a proprio vantaggio.

Tuttavia, anche in caso di trasformazioni estese e massicce, le modificazioni apportate degli Inca erano tenui e delicate: gli Inca non violarono mai la topografica ma piuttosto esaltarono il paesaggio  in modo fa farne risaltare gli aspetti più salienti. Grandi archi di terrazze scandiscono il contorno delle colline, lunghe fughe di terrazze accentuano i fianchi scoscesi delle montagne. L'arte di terrazzare il terreno divenne l'arte del paesaggio. Nella loro concezione dell'universo, le montagne erano sacre, erano Apu, cioè divinità. le rocce erano venerate, rocce naturali chiamate Apu erano trasformate in santuari, rocce erano scolpite in modo da poter ricevere offerte o per servire ai rituali cerimoniali. Quindi gli Inca, quando costruivano terrazze o altre strutture facevano sempre in  modo di armonizzare la natura con l'opera dell'uomo.

 

Furono attenti costruttori.

Gli Inca erano molto attenti nella scelta e tenevano conto della topografia anche per le terrazze agricole. Spesso costruivano in luoghi elevati, su affioramenti rocciosi, nè tralasciavano le motivazioni strategiche:
quando sceglievano l'ubicazione per un nuovo centro amministrativo, prendevano in considerazione la facilità di accesso e di rifornimenti nonché il controllo della popolazione locale. Quindi non ci si deve sorprendere se molti insediamenti importanti, costruiti lontano da Cuzco, siano ubicati lungo le vie di comunicazione principali." (4)

Gli elementi costanti dell'architettura inca sono: i muri pendenti (questo elemento rendeva eleganti e snelli i muri, oltre all'usanza di mettere i blocchi più grandi alla base piuttosto che sulle file superiori), le porte, le nicchie, e le finestre trapezoidali, i pioli cilindrici.

Gli Inca sono grandi costruttori di città, e sebbene la loro politica enfatizzasse il controllo dell'impero attraverso piccoli centri, essi riuscirono anche a fondare insediamenti nuovi e a costruirli su terreni vergini dando ad essi un ordine preciso.

 

Essi riescono ad abitare la natura impervia andina e la abitano con “la semplicità, la simmetria, e la solidità...” tanto che si potrebbe dire che un solo architetto abbia costruito tutti gli edifici.

Gli Inca avevano messo in atto quello che Frank Lloyd Wright ha definito “architettura integrale” e di cui tanto bisogno oggi sembra sentire la nostra schizofrenica civiltà!

 

 

Bibliografia

 (1) Savina Fumagalli  "Contributo allo studio del simbolismo zoomorfico nell'arte precolombiana" ed. Fratelli Bocca, Torino 1933

 (2) Laura Minnelli  "Il mondo magico- religioso degli Inca" ed. Esculapio Bologna 1989.

(3) "Ecuador la terra y e l'or" Luidi Production Roma 1992.

(4) Protzen “I regni preincaici e il mondo Inca”.

 


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