Home Anno 17° N° 61 Pag. 6° Luglio 2008 Ada Cortese

Ada Cortese
 DOCUMENTI 
IL LUOGO DELL’ANIMA CHE IO CONOSCO.

Stralcio dell' intervento di Ada Cortese allo Psicofestival di Fidenza 2008

I luoghi dell’Anima

 

Se ne parliamo in termini archetipici, dunque junghiani, l’anima rimanda ad un pretendersi e protendersi della vita oltre ogni dimensione etica e religiosa. Essa, è sconvolgimento dell’ordinario procedere secondo basi valoriali creduti “rocciosi”, “incontrovertibili”. Un classico è “Lolita ” di Vladimir Nabokov, uno per tanti.

L’ irruzione di tale archetipo può portarci verso ulteriore distruttività (dunque frantumazione) o verso maggiore integrazione.

 

 A soffermarci alla superficie degli eventi condivisibili socialmente grazie ai media sarebbe facile scorgere il prevalente aspetto animale dell’anima, quella dunque che fa regredire la psiche umana verso minore riflessione e  verso affettività elementare e concretistica in cui la norma è il passaggio al gesto (mancando il pensiero), il cosiddetto acting-out. I giornali sono pieni di scandali dell’anima e di anime profanate. Pieni di eruzioni psicotiche: che si tratti di delitti passionali come si chiamavano un tempo o che si tratti di delitti ad opera del dilagante nichilismo dove al contrario la passione è la grande assente, e ciò che si manifesta in superficie è la psicosi, quella che fiorisce su quella visione della vita che Severino chiama la follia dell’Occidente e che costituisce il sottosuolo dell’Occidente.

 

E’ certo disperante, per esempio, vedere ragazzi ai concerti, in discoteca o avanti ai pub, che fanno massa delle loro solitudini sperando, ritrovandosi sotto l’ombrello della stessa musica assordante, o bevendo la stessa birra sul marciapiede avanti al bar, di riuscire almeno per qualche ora, a sgusciare via dalla dolorosa corazza dell’anaffettività e dal nichilismo. Ma questi giovani che nelle loro discoteche portano la loro assenza e le loro solitudini, come sostiene Umberto Galimberti, nel suo lavoro “L’ospite inquietante”, sono soli perché la loro anima è stata rubata e sotterrata “come una cenerentola al servizio di sensi sfrenati e votati all’autodistruzione”.

 

Per fortuna, avanti a questa immagine depressiva di futuro scippato, altre immagini mi vengono incontro: immagini di gioventù riflessiva e di futuro più consapevole e illuminato. Ragazzi filosofi all’età di 18 anni, ragazze che scelgono parametri non pragmatici per abbracciare gli studi e le cose che davvero amano. Non è letteratura ma sono incontri con persone vere, assolutamente comuni. La vita pulsante convince più dei libri.

 

Allora rincuorata anche da questo e dalle persone che comunque ancora scelgono di affrontare il male del vivere non solo con psicofarmaci ma mettendosi in gioco nella relazione più impegnativa che, per me, è l’analisi, ecco, incoraggiata da tutti questi segnali, io vorrei parlare dell’Anima o meglio accennarne, in termini spirituali, viventi, non astratti o trascendentali: quando dunque l’anima, oltre ogni significato religioso, smuove la coscienza per aprirla a più ampie distese e a più ampie compartecipazioni, anche al costo di farle attraversare gli inferi.

 

Una premessa ancora:

 

Sono sempre movimenti sotterranei, poco visibili, quelli che muovono l’anima verso la spiritualità. Mi riferisco al famoso filo d’oro della conoscenza sapienziale sempre libero dalle parole e dalle prassi istituzionali, il filo d’oro  che sa conservare e sviluppare il rapporto con quel lato dell’anima che veicola sia pure inconsciamente il senso più profondo e più semplice della nostra esistenza. Cito dalla raccolta di Werner Weick "Fin dai tempi più antichi, il filo d'oro è il simbolo di un sapere che nasce dall'esperienza personale e che è libero dai condizionamenti istituzionali. E' un filo perché rappresenta la continuità di un'esperienza sempre antica e sempre nuova ed è esile perché in ogni generazione questa consapevolezza viene mantenuta da una minoranza di individui. Questo filo è d'oro perché è immortale: resta sempre, anche nei periodi più caotici e oscuri; a volte più apparente, a volte più nascosto."

 

 E allora, per non restare nell’astrazione e nella teoria, è consequenziale chiamare a testimone il mio lavoro di psicoanalista e la sua invisibilità: in esso io trovo il modo di sentire l’anima e di farla, come diceva Hillman.

 

In esso o per meglio dire: nella relazione analitica.

 

Essa è la relazione per eccellenza dove si esprime il bisogno supremo dell’uomo, il quale meglio non fu più detto dal tempo di K. Marx filosofo: Il bisogno dell’uomo è l’altro uomo. Dunque: quello che resta, tolto tutto quanto eccede e che comunque è strada ad esso, è  bisogno di relazione pura, intima profonda, misterica dove si fa conoscenza diretta e produzione di ciò che non trova posto in altro luogo ormai: il luogo dell’anima sta nel cuore dialogico dell’uomo. Allora Anima non può esserci senza i due!

 

Non c’è nulla di più prezioso in questo senso e nell’Occidente, io credo, della relazione analitica “pura” intendendo con tale aggettivo quel tratto del lavoro che chiama in causa appunto l’esigenza più alta e profonda dell’uomo, l’esigenza di andare oltre la prigione del sistema binario e della logica che trattiene i due nella separazione. Quando l’Anima si mette in azione le parole piane e piatte, segniche, si percepiscono inadeguate e i due dell’analisi necessitano di altro per condividere l’esperienza del simbolo vivente e il simbolo rifugge rassicuranti definizioni confini e circoscrizioni. Grande pericolo, grande turbamento ma anche grande entusiasmo, grande eros.

 

Grazie all’attivazione di questo archetipo i due vengono sottratti al racconto/cronaca sia pure affascinante della vita vissuta e familiare. E nel contempo, mentre la coscienza annaspa e temporaneamente si allontana dai modelli condivisi che le garantiscono appartenenza e dunque rassicurazione identitaria, una profonda e misteriosa unione si pone autonomamente in essere tra i due dell’analisi e nutre la personalità globale di ciascuno dei due di un carburante che permette loro la tenuta di tutto quanto l’anima intende scuotere e riscuotere.

 

L’analisi, come esperienza relazionale, incontra l’anima quando le parole ovvie e conosciute cessano, sia quelle personali del vissuto intimo dell’analizzando che quelle intellettuali teoriche e metateoriche a cui comunque l’analista attinge sia pure senza nominarle. Solo quando tutto l’apparato conoscitivo rassicurante cessa, l’anima irrompe o, si può dire, essa irrompe e impone il silenzio all’io, alla ragionevolezza.

E nel silenzio sorge la mancanza e il bisogno vero può darsi da sé il vero nome senza surrogati.

 

Ripeto:
l’anima può esprimersi in infiniti modi.

Ripeto:
voglio soffermarmi sulla sua espressione spirituale.

 

Quando si mostra in questa forma essa si accompagna alla mancanza, alla pena, alla penuria, alla miseria, al bisogno.

 

Ma questa unione di anima e pena non è già relazione d’Amore, quell’amore che si declina secondo Socrate sui tanti piani che dal personale portano alla pienezza del Bene supremo, all’Universale?

 

 La cosa più bella del mio lavoro è proprio il perenne rinnovarsi della richiesta d’amore dell’essere umano oltre le forme della dipendenza concretistica e dell’immediatezza sentimentalistica per aprirsi ad altro amore che, comunque, sempre vestito di stracci si presenta agli occhi statici della coscienza istituzionale collettiva. E questo può significare che per l’analizzando può proseguire una vita la quale nulla faccia trapelare dello stato spirituale nuovo a cui l’analisi lo consegna e di cui si accorgeranno solo altri “iniziati” al pari suo.

 

E nella rinnovata richiesta e ricerca di Amore, Anima viene incontro e si attiva secondo movimenti non immediatamente comprensibili e percepibili come favorevoli e alleati al Sé ma che grazie all’atteggiamento di reciproco contenimento della tensione  conoscitiva dei due dialoganti dell’analisi, sa svelare in un secondo tempo i doni che porta: le cose più belle per cui vale la pena di essere vivi e di fronteggiare il peso e la gravità dell’essere in questo mondo. 

 

Spesso ho la sensazione che l’archetipo vivente dell’anima, attraverso i tanti volti che incontro in analisi, si attivi, ossia si renda a me percepibile per chiedermi quasi aiuto e conferma alla sua realtà vivente.

 

Come dire che l’analisi, quando diventa processo individuativo, sa farsi “mondo della creazione” non solo in senso artistico – estetico ma perché crea mondo in virtù della relazione che nutre con l’energia particolare che le è propria:
mondo dell’anima e dello spirito che, se lasciato a se stesso e non raccolto, saprebbe produrre anche distruzione e imbarbarimento, ma che, se accolto e “raffinato” grazie al lavoro relazionale dei due dell’analisi, restituisce agli stessi, e perché no, anche all’Altro generalizzato, all’Umano universale, vita moltiplicata di consapevolezza.

 

E perché questo continui ad essere pare necessario il ripetersi del destino doloroso e necessitante dell’analista che oscilla tra necessità di incontrare l’altro con cui condividere il bisogno di fare anima e spirito, con la conseguente esperienza di estasi (l’ uscire da sé liberatorio catartico e luminescente) quando questo mondo viene dai due creato vissuto e alimentato, e il ritorno alla mancanza perché egli analista non può far conto sul legame affettivo, non può indugiare in nessuna forma di elementare quotidianità con il suo analizzando il quale deve proseguire da solo nella vita.

 

L’analista è così restituito al bisogno della ricerca dell’Anima e del Sé ancora una volta, ed in virtù del suo interlocutore analitico, bisogno che si riaccende nel vissuto dell’essere solo, ancora una volta, mancante, limitato, senza la concretezza del mondo che una volta creato (meglio sarebbe dire “evocato”)
sembra (ma questa sì è una illusione) scappare via, perdersi, svanire. E così per riacciuffarlo e restituirlo alla vita, restituendosi egli stesso analista alla vita, ecco di nuovo la necessità di un nuovo percorso individuativo

 

 …all’infinito…

 

Apparentemente per aiutare quel particolare Soggetto, quella precisa umanità, a superare i suoi personali problemi, ma, a ben pensare, per collaborare alla creazione e alla conservazione di una rete invisibile di luminosi filamenti spirituali e coscienziali umani che crescono nella loro bellezza solo per la libertà assoluta che almeno una volta nella vita umana è necessario sperimentare e tale libertà di relazione è, per quel che conosco, l’analisi per il semplice fatto che essa è relazione “essenziale”.
Ma, come diceva Jung, potrebbe essere un istante di consapevolezza totale regalata dall’inconscio o da chissà chi. Le vie sono infinite. Io parlo di ciò che conosco perché lo sperimento.

 

Libertà, dunque, non da qualcosa ma libertà di stato per raggiungere il quale occorre sostenere l’incontro con il limite, con la mancanza la quale sa condurre all’esatto suo contrario. La mancanza è la chiave per scardinare il principio di non contraddizione perché essa nasconde ricchezza.

 

Il dono inatteso e nascosto della schiavitù  che conduce, camuffata da sintomo, all’analisi è il vissuto della pienezza e della libertà.

 

Senza l’atteggiamento animico dunque aperto al simbolo polivalente e

all’incertezza, non emerge nulla. Se il soggetto non trova  anche solo un luogo dove ascoltare i moti interiori della sua anima, egli resterà chiuso in se stesso sotterrato da rapporti finti, dalla materialità del suo pensiero inconscio e probabilmente suddito del pensiero ideologico esterno.

 

Così non sia.

 

 

 

 

 


Ada Cortese


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