Home Anno 16° N° 58 Pag. 3° Aprile 2007 Ada Cortese


Ada Cortese
 CONFERENZE 

RIFLESSIONI SULLA STORIA DEL PENSIERO COME STORIA DELLA REALTÀ CHE RIFLETTE SU SE STESSA.

Considerazioni sulla storia della relazione tra pensiero conoscente ed inconscio. (*)

L'uomo è tale perchè è un essere sociale capace con la sua attività lavorativa ed insieme agli altri uomini, di trasformare la natura e creare simboli. L'uomo cioè crea storia e cultura.
Diverse possono essere le interpretazioni della storia umana che, in definitiva e schematizzando, coincidono con le interpretazioni consce o inconsce che l'interprete ha di se stesso: insensata, accidentale se egli si sente insensato, accidentale; come processo dialettico teso verso un senso se l'interprete alberga in sè tale visione.
Poichè è in quest'ultimo interprete che mi riconosco, preme in me il desiderio, per intendere il presente e la problematica elettiva che esso m'impone violentemente e a livello individuale e a livello sociale, problematica che io non voglio leggere concretisticamente appiccicandomi ai singoli eventi o al loro insieme astoricamente, preme in me, dicevo, il desiderio di riconsiderare la storia non tanto come storia di eventi, di guerre, di economia, di filosofie quanto la storia del rapporto dell'uomo con il suo pensiero.
Ma prima di riandare con alcune considerazioni a questa storia, vorrei esplicitare qual è la problematica con cui mi confronto giorno per giorno nel mio lavoro di psicoanalista: essa si esprime nella tensione da un lato all'autolegittimazione a dire no al non-senso, al concretismo, ai ruoli cristallizzanti, al vivere irriflessivo o delegante, al vivere nell'immediatezza e lo scacco che tale intenzione subisce, d'altro lato, nel momento in cui il soggetto non tollera la tensione della distanza riflessiva.
L'ambivalenza di fondo nel soggetto che instaura un rapporto analitico con me è proprio questa: recuperare la sua storicità come rappresentante del genere umano e quindi la storicità del momento sociale in cui è inserito riappropriandosi di tutta la responsabilità che gli deriva e dall'essere erede di un pensiero e di una cultura che altri prima di lui hanno creato e dall'essere prosecutore e creatore di nuova storia accettando la convivenza perenne con l'incertezza, con la conflittualità, accettando altresì di vedere proprio nel processo che con esse va compiendo il senso stesso del suo esistere. L'altro polo invece che il soggetto vive è la spinta alla ricerca della quiete, l'inseguimento di un mondo paradisiaco, il timore di disobbedire.
La realtà individuale è anche la realtà sociale. Anche la realtà sociale vive sempre dei due momenti: quello omeostatico o funzionale e quello trasformativo o di crisi.
Il sociale, nel suo momento omeostatico propone ed impone ad ogni livello, dal rapporto tra madre e figlio al rapporto tra Stato e cittadini, al rapporto tra consumatori e produttori, una cristallizzazione tra forte e debole dove il forte si propone come Eden per il debole. La logica sociale dei rapporti sia primari, ossia affettivi in senso stretto, che secondari, ossia istituzionalizzati, che sottostà ad una logica economica, può essere introiettata in due modi: a) l'adeguamento, l'arrabbattarsi facendo propria la morale sociale ufficiale ("ognuno pensi a sè", "conta il profitto", "dai rapporti devo trarre il massimo vantaggio per me"): sono coloro che rappresentano la quiete del sistema, sono coloro che meglio hanno saputo zittire il valore della "socialità". Possono sì creare nuova conoscenza ma non modificano il rapporto con essa: "Socialità" che non si zittisce invece in coloro che tale logica b) introiettano talmente a fondo da esasperare il loro ruolo fino a farli "scoppiare". L'esasperazione permette il disvelarsi del non-senso legato alla schiavitù del soggetto totalmente identificato in una sola dimensione (appunto il ruolo). Sono coloro che rappresentano un aspetto trasformativo del sociale. Incosciamente è proprio il valore della soggettività, intesa come umanizzazione crescente la quale non si può dare se non con la riscoperta del sociale in divenire nell'individuo, che spinge l'individuo ad esasperare il suo conflitto, conflitto che non nasce da una disobbedienza al suo compito sociale istituzionalizzato ma da un eccesso di "zelo". Momento rivelatore di tale conflitto è l'inconscio, non più riducibile a inconscio individualistico, l'inconscio che parla è la storia collettiva che agisce in ognuno di noi. Problematica individuale e problematica sociale coincidono pur nell'assunzione personale e irripetibile di ogni singolo.
Problematica individuale è il faticoso passaggio, per chi si fa fertile ad essa, dall'interdipendenza all'intersoggettività. Non è facile spiegarlo in due parole: è il passaggio dell'amore per sè come ego isolato, fragile, debole, che si deve gonfiare con l'attaccamento concretistico agli oggetti per far fronte a una realtà che gli si contrappone come estranea, ad un amore per sè come primo momento necessario per poter amare l'altro, quando cioè l'amore per sè è già l'amore per l'altro, per il sociale che già vive dentro di noi come valore. E' allora il passaggio dalla logica della reciproca strumentalizzazione, della rigida contrapposizione di ruoli, della identità nella identificazione, ad una modalità di rapporto che restituisca al soggetto tutte le dimensioni che umanamente è dato vivere e che gli permettano di essere intero e libero nel rapporto con l'altro.
La stessa problematica, già dicevo, è a livello sociale: impera la divisione forte e debole. E' il rapporto produttivo stesso che si fa garante del dominio e della riproduzione della stessa modalità di rapporto a livello affettivo. La capacità riflessiva, insieme al soddisfacimento dei bisogni, è delegata e quindi è delegato il potere su essi e su se stessi.
Ma il fatto stesso che la "struttura" intendendo per tale il fatto istituzionale corrispondente ad ogni aspetto esistenziale (padre, madre, famiglia, Chiesa, partito, classe, ecc.) venga perdendo sempre più senso agli occhi del soggetto sta a dimostrare in qualche modo, insieme a tanti altri fattori più palesemente disfunzionali (droga, B.R. ecc.) l'altro polo del conflitto: il desiderio, anche socio-storico di recuperare a sè ed in sè il senso della struttura per poterlo riconoscere come proprio.
L'inconscio riporta questi messaggi ma il farli incidere dipende dalla intepretazione dell'analista, e poichè non è un tecnico e in ogni caso ha una visione precisa dell'uomo, dipenderà da questa l'attivizzare, il valorizzare tali messaggi rivelando il Sè del soggetto o umiliarlo riducendo il tutto a problematiche individuali e familiari asocialmente e astoricamente intesi.
Ma su quali presupposti storici poggia questa interpretazione dialettica del momento psichico o spirituale del nostro tempo?
Ciò che mi supporta a leggerlo come ricerca dialettica di senso, sia pure nella piena libertà che la dialettica stessa garantisce (non sappiamo come l'umanità sceglierà) è la stessa chiave dialettica applicata alla storia del rapporto dell'uomo con il suo pensiero. Lungo questo storia ciò che emerge è il sempre più dirompente bisogno di soggettivizzazione.
A questo proposito vorrei soffermarmi su due momenti storici significativi: in un primo momento l'uomo non aveva coscienza di sè se non come parte poco significante di una spiegazione religiosa del mondo che era al di fuori di lui. Il principio di validità dell'esistente e quindi anche del soggetto era patrimonio di tale visione di cui si faceva garante la Chiesa. E' questo un aspetto significativo del mondo medioevale nel quale il rapporto interumano, mediato da questa realtà esterna, non poteva non contenere in sè l'aspetto funzionale al matenimento della scissione uomo e pensiero.
Con l'urbanesimo e l'industrializzazione, ed è questo il secondo momento che voglio sottolineare, e con i fenomeni ad essi connessi quali l'instabiltà sociale, la mobilità verticale e orizzontale, la crisi dell'intellighenzia ecclesiastica come detentrice della visione oggettiva dominante, l'emergere e l'affermarsi del proletariato e quindi col sorgere di visioni del mondo alternative, si scopre la realtà come diversa a seconda dell'ottica dll'osservatore. La visione oggettiva totalizzante crolla e l'uomo che cessa di essere definito dall'esterno comincia a interrogarsi sul perchè delle diverse visioni del mondo e quindi sulle origini inconsapevoli del pensiero passando dall'analisi della realtà e delle cose all'analisi delle idee.
La realtà non spiega più l'individuo.
L'uomo fa un passo avanti verso il suo conquistarsi come soggetto. Egli cerca in sè e non più fuori di sè un punto di partenza che gli spieghi la realtà .
Si assiste allora a un capovolgimento drastico di ottica e l'epistemologia fu il primo risultato significativo: l'individuo rivendica solo a sè la capacità di capire.
L'individualismo come nuova filosofia risponde all'esigenza della nascente società capitalistica. Filosofia individualistica da un lato, scienza senza filosofia dall'altra: entrambi funzionali per lo sviluppo capitalistico così come si è dato. Ed è in questo tipo di ottica scientifica che si evolve l'analisi nell'uomo del suo pensiero. Nasce, o per meglio dire, si sviluppa l'ottica psicologica. Questa si trovò a seguire lo stesso processo che caratterizzava l'esperienza e la conoscenza della realtà esterna.
Contenuti simbolici qualitativamente ricchi come peccato, sacrificio, amore, vennero sostituiti con entità formalizzate quali libido, istinto, energia, ecc. e adoperate al solo fine della verifica del meccanismo psichico.
Si cercò cioè di applicare gli schemi interpretativi derivati dalla meccanica all'esperienza interiore dell'uomo.
Il feticismo scientifico uccide però il principio di valutazione e quindi le finalità senza i quali nulla è possibile all'interno dell'unità sociale o psichica.
Epistemologia e psicologia si proposero entrambe di spiegare il pensiero dalla sua comparsa nel soggetto. Ma entrambe tennero separata la mente del singolo dal gruppo in cui egli vive. E tale scissione ci riporta alla problematica attuale segnata dall'esasperazione della contrapposizione individuo-società.
Non è possibile porsi il problema dei fini, dell'ontologia nel mantenimento di tale scissione, che è pur sempre e solo apparente perchè ogni fatto storico-sociale è un fatto umano e ogni fatto umano è un fatto storico-sociale.
Ora, è proprio intrinseco al concetto di storicità dell'uomo stesso l'idea dell'uomo detentore della sua storia fino ad oggi. Ma come e dove tale storia si presenta? Essa esiste, secondo noi, in ogni soggetto umano sintetizzata e la sintesi dei momenti storici si rivela nel simbolo rimosso.
Quindi l'inconscio, nel suo significato di mediatore tra individuo e processo storico, è da un lato proprietà del soggetto e dall'altro patrimonio comune al sociale. Solo accettando questa dimensione dell'inconscio possiamo accedere ad una realtà dialettica perchè se da un lato lo considerassimo solo momento individuale ricadremmo nella atemporalità e nell'immediatezza del dato e dall'altra parte il collocarlo completamente fuori dall'individuo ci farebbe ricadere in una dimensione non dialettica in quanto forze oscure determinerebbero ancora la storia.
A livello sociale le due diverse ottiche su accennate portano a due diverse visioni del mondo interpretabili come fuga dalla realtà che il sociologo Karl Mannheim ha lucidamente analizzato:
a) l'atemporalità legittima la struttura ideologica: così è stato, così è, così sempre sarà. Si legittima l'esistente dato. Si nega il momento trasformativo.
b) La fuga dal presente con la struttura utopica: negazione della validità storica del passato e del presente. Si attende l'Eden futuro. Astoricità comunque.
Il pensiero sociale così analizzato rivela la difficoltà a prendersi il carico globale della conflittualità e poichè esso altro non è che il pensiero dell'uomo sociale possiamo verificare la congiunzione del discorso sociologico con il discorso psicoanalitico.
Psicoanalisi e sociologia, operanti nella e avallanti inizialmente la scissione già detta, vivono la stessa crisi e non è un caso che entrambi si soffermino oggi sulla funzione dell'inconscio collettivo. Con esso si rivela quell'anello di congiunzione necessariamente esistente tra individuo e società e pur fino ad oggi così inafferrabile dalla coscienza. Esso assume la funzione mediatrice. La realtà non viene più a coincidere col vissuto soltanto o col razionalismo ma si trasfigura nel momento in cui il soggetto, ripiegandosi su se stesso se la riscopre dentro come realtà sociale oltre che personale. Può cessare, questa è la proposta che, mi sembra, oggi l'inconscio avanza, la riflessione su una realtà considerata e percepita estranea ed esterna; può iniziare, per parafrasare il titolo, pur accanto al perenne atto conoscitivo, un'analisi della realtà che riflette su se stessa.

(*) Conferenza da me tenuta nel ciclo organizzato con il collega F. Colombo nel 1980 a cura dell'Associazione Ricerche e Studi Psicosociali attorno al pensiero di S. Montefoschi.


Ada Cortese


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