Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Dicembre 2003 Pag. 10° Laura Ottonello


Laura Ottonello

 RICERCHE 

IL SILENZIO

Una via dell'anima e della conoscenza di sé

Il sapere più alto è la conoscenza di sé.
Così scriveva Monoimo, uno gnostico del II secolo, a Teofrasto:
"Impara chi è colui che, in te, si appropria di ogni cosa e dice: Il mio Dio, il mio spirito, il mio pensiero, la mia anima, il mio corpo. Impara donde vengono il dispiacere, la gioia, l'amore, l'odio; donde viene che si vegli senza volerlo, che senza volerlo si ami. (...) perché, partendo da te stesso, avrai trovato la via per uscire da te stesso." Uno dei canali più noti, fin dall'antichità, per raggiungere se stessi è il silenzio, itinerario di ricerca ed illuminazione dei mistici.
Per l'uomo moderno, che corre freneticamente, è difficile abbandonarvisi.
Avviluppato nell'estenuante logica dell'attivismo, stordito e bombardato dalla civiltà del rumore e sazio di stimoli di ogni genere, l'uomo della nostra società non ha dimestichezza con la mancanza e raramente trova in sè la dimensione del silenzio come vuoto improduttivo.
Ed è difficile concepire l'idea della vita disgiunta dal rumore.
L'inquinamento acustico delle città è uno dei motivi principali che spinge sempre più persone alla ricerca di luoghi silenziosi in cui trascorrere le vacanze: al di là di una fisiologica capacità di selezione acustica, vi è, infatti, una soglia oltre la quale il nostro cervello non riesce più ad escludere i rumori di fondo.
La via del silenzio è sempre stata prescelta da religiosi e mistici ma anche da pensatori, filosofi, scienziati ed umanisti. Oggi Zabat Linn, cogliendo l'universalità di tali pratiche non solo religiose, ha portato la meditazione in un ospedale universitario, ottenendo notevoli successi terapeutici.
In America la psicologia cognitivista utilizza la pratica del silenzio come metodo terapeutico per sedare l'ansia, affrontare stress e depressione.
Si tratta di imparare ad osservare i pensieri in uno stato di presenza vigile, attivamente ma senza giudicare, fuori da nessi causalistici, logiche economiche o utilitaristiche, in una totale gratuità, insomma; in un'ordinarietà che comprende - e trascende al tempo stesso - le categorie dello psichico. Si deve imparare ad ascoltarsi per lasciar essere; i benefici che si ottengono derivano dall'accettazione di vissuti negativi che riescono ad emergere alla coscienza.
Tale paradigma sembra coincidere con il concetto di doppia-verità presente nel buddismo: Samsara (illusione) e Nirvana (illuminazione) sono identici e compresenti.
Anche le ricerche in ambito neurofisiologico confermano che questa forma di non-pensiero che favorisce il pensiero consapevole, migliora il benessere fisico. Nel corso degli esperimenti di pratica meditativa si è dimostrato infatti che aumentano gli ormoni legati al piacere (endorfine) e diminuiscono quelli legati allo stress (ad esempio l'adrenalina).
Nella scuola buddista del "giusto mezzo" il silenzio è uno dei possibili upaya ("trucchi") o artifici didattici per contattare "il silenzio tonante".
Entrare nel silenzio è molto più che contemplare, in quanto richiede uno sforzo attivo del corpo che si impegna in uno spazio simbolico ludico-creativo non inquinato dalla logica che condiziona l'ordinario "pensare".
E' uno stato di veglia attiva scevra da concretismi, giudizi, valutazioni e rendiconti; è una zona franca, "una pausa dalla produttività" come dice il maestro Taiten Guareschi, abate e insegnante di una Comunità Zen di Salsomaggiore, in un'intervista radiofonica.
Silenzio non è assenza di parole ma vuoto, astrazione libera dai pensieri-pensati che sono oggetti della mente, materia ingombrante assai lontana dalla cosiddetta riflessione.
In Italia uno dei più illustri esponenti delle pratiche meditative è Corrado Pensa. "Le elucubrazioni compulsive e incontrollate - egli scrive - travolgono la consapevolezza e questo è uno dei maggiori elementi della sofferenza." Ma dedicarsi al silenzio non è una pratica ordinaria ai nostri giorni anche se ne sentiamo la mancanza: dietro quel bisogno apparentemente banale di "staccare la spina" c'è l'intuizione di poter, finalmente, ri-trovarsi.
Proprio in virtù di questo anelito interiore, spinti dal desiderio di ritagliare formalmente una fetta del nostro tempo "esteriore" per dedicarlo al tempo "interiore", a settembre abbiamo organizzato un gruppo d'incontro centrato sul tema del silenzio e ne sono emerse interessanti considerazioni.
Il sogno di una delle partecipanti descrive in modo efficace gli ostacoli più consistenti alla possibilità di contattare quel nucleo pulsante.
La sognatrice si avvia, sola, lungo una strada. Giunta ad un ponte che sovrasta un fiume, realizza di aver dimenticato di portare con sè il suo zainetto. Si ferma perplessa per riflettere se è il caso o meno di tornare indietro: "servirà quello zaino?" si chiede. Decide di tornare a casa ma, una volta là, le incombenze domestiche e familiari la trattengono: il "fare" la ricattura nel vortice dell'ordinarietà fino a perdere di vista il suo viaggio mitico, che non riprenderà più. E' un'immagine onirica densa di emozioni nel momento in cui la sognatrice è vicina a varcare quella soglia, luogo simbolico del passaggio.
Il sogno sembra rimarcare che l'uomo, pur intuendo di poter accedere ad una dimensione interiore portatrice di libertà, rischia di smarrire il percorso ancorandosi alle certezze del già noto, alla materia, al pensiero ordinario, ai "rassicuranti" abiti mentali consueti.
Il ponte rappresenta un salto di logica, un passaggio, un cambio di visione, uno spazio inedito da ri-scoprire e recuperare.
Se la dimensione del silenzio, almeno da un punto di vista teorico, idealmente e ingenuamente, è immaginata come condizione di pace, serenità e acquietamento dell'Io, in realtà essa fa anche molta paura.
Attingere al fondo di se stessi per evocare quello spazio muto che chiamiamo semplicemente silenzio, comporta la necessità di lasciare sullo sfondo, dopo averli incontrati uno ad uno, tutti i pensieri e i predicati che scandiscono la storia e l'identità di ognuno.
Occorre imparare a reggere la tensione di una solitudine che, prima di acquisire una valenza rigenerante, prima di diventare terreno fertile in cui viene a cadere la causa del dolore e dell'angoscia, ha l'aspetto di un deserto; là incontriamo i nostri demoni: orgoglio, presunzione, vanità, insomma il nostro narcisismo.
Il percorso coscienziale, qualunque sia la metafora che lo descrive (fiaba, rito iniziatico tribale o religioso, leggenda o mito) attraversa sempre la fase del caos e del buio contrassegnata dagli incontri pericolosi, simboli dell'inconscio.
Nei riti moderni non c'è più il lupo cattivo che mangia Cappuccetto Rosso. Oggi le trame del rischio sono più subdole, sotterranee: l'uomo si è molto evoluto raffinando, nel pensiero nella parola e nei gesti, le tecniche di conoscenza ma anche gli strumenti "logici" di potere e di controllo.
E così, se pure incarna l'intuizione e la spinta a varcare quella soglia invisibile che lo porterà finalmente in Paradiso, dall'altro lato un sofisticato sistema difensivo escogiterà sempre nuove armi per combattere quel nemico che è dentro di lui.


Laura Ottonello


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