Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Dicembre 2003 Pag. 9° Agnese Galotti


Agnese Galotti

 SCHEDE 

IPOCONDRIA: CRISI DELLA PRESENZA

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia riarsa,
era il cavallo stramazzato.

Il termine "ipocondria" deriva dalla denominazione greca della zona superiore dell'addome _ gli ipocondri "sotto le coste" _ cioè la sede del fatidico "mal di pancia", laddove si fanno sentire le passioni viscerali.
I Greci infatti intravedevano nell'ipocondria, che spesso collegavano alla melanconia, uno squilibrio delle passioni causato da una particolare disfunzione degli "ipocondri".
A tutti può accadere in qualche occasione di preoccuparsi in maniera eccessiva di una sensazione insolita o di un dolore fisico inaspettato e di temere, di conseguenza, che esso possa essere segnale di una qualche grave malattia.
Ciò che differenzia l'ipocondria dal normale timore di essere affetti da qualcosa di grave è il modo in cui la paura si manifesta: non sporadica bensì sistematica e prolungata, accompagnata da un'insistenza che diviene per lo più ossessionante.
La caratteristica più evidente è costituita da un'eccessiva attenzione alle sensazioni corporee, peraltro vissute come sgradevoli ed inquietanti, che si amplificano finché tutta l'energia del soggetto viene assorbita in questo ascolto abnorme di un corpo sentito come "malato".
I cosiddetti ipocondriaci accusano una varietà infinita di sensazioni abnormi, che vanno dai banali capogiri, sbandamenti, disturbi visivi, formicolii, a sensazioni più complesse e bizzarre, come parti del corpo "rimpicciolite, ingrandite, appiattite, gonfiate, rinsecchite, raggrinzite, spostate, modificate,…" o sensazioni come di acqua che scorre internamente, con ribollimenti, scricchiolii, gorgogliamenti, ecc… Questa eccessiva preoccupazione per le sensazioni corporee, nel suo amplificarsi, finisce per causare una sorta di ritiro dal mondo e dalle relazioni interpersonali.
La collocazione nosografica dell'ipocondria, dal punto di vista psicopatologico, è sempre stata controversa: da alcuni è considerata come un sintomo a se stante, da altri come un sintomo secondario che accompagna, in maniera periferica, le più diverse entità nosografiche, dall'isteria alla schizofrenia. In ogni caso quando si parla di ipocondria, sia che essa sfiori la dimensione nevrotica o quella psicotica, la lucidità del soggetto, soprattutto per quanto riguarda la percezione del proprio stato corporeo, risulta almeno in parte compromessa.
L'ipocondria infatti è un disturbo psicogeno che mette provocatoriamente in ballo il rapporto del soggetto con il proprio corpo, e, di conseguenza, il suo modo di percepirsi nel mondo.
Dal punto di vista psicoanalitico Freud annovera l'ipocondria fra le nevrosi attuali, la collega cioè ad un ingorgo libidico, e, in quanto non interpretabile simbolicamente, la considera un sintomo non analizzabile.
Ferenczi compie il primo passo nell'indagare l'ipocondria in una prospettiva sostanzialmente relazionale, che troverà numerosi seguiti (Bion, Kohut): tale sintomo viene da lui considerato il segno di un fallimento precoce che sarebbe avvenuto nelle relazioni fra il bambino e il suo ambiente. Più nello specifico riguarderebbe un incidente relazionale, una mancanza di empatia dei genitori avvenuta _ e presumibilmente ripetuta _ in situazioni particolarmente stressanti o dolorose per il bambino. Una freddezza affettiva da parte delle figure genitoriali, insieme all'incapacità di riconoscere i bisogni del bambino ne costituirebbero le premesse. Un esempio esplicativo: il bambino avverte un trauma, un dolore psichico, lo verbalizza, ma i genitori, con l'intenzione di rassicurarlo, negano la cosa, affermando "che non è successo niente".
Tale fallimento empatico causerebbe, nella soggettività nascente nel bambino, un vissuto di catastrofe incombente, corrispondente al rischio di disintegrazione del Sé che, nel caso dell'evoluzione ipocondriaca, verrebbe spostato sul corpo.
L'aspetto più importante che emerge da queste osservazioni è il collegamento che sussiste in maniera diretta tra una sana coesione del Sé e l'esperienza soggettiva di "abitare il proprio corpo", nel senso di "sentirsi a casa", accolti in uno spazio che ci riconosce e ci contiene, e ci permette di sperimentarci in un benessere psico-fisico, che caratterizza la nostra esistenza, il nostro stare al mondo.
L'ipocondria, al contrario, è la situazione per eccellenza in cui il corpo _ e quindi il proprio Sé _ è vissuto come luogo insidioso, inabitabile, frammentato in mille parti scoordinate, mancante della coesione necessaria per sentirsi bene, a proprio agio, sufficientemente contenuti nella propria pelle e sanamente aperti verso l'esterno.
Da un punto di vista fenomenologico l'ipocondria esprime una sorta di autoriflessione esasperata (un "crampo autoriflessivo"), che spinge verso una crescente oggettivazione del corpo (il corpo come "cosa") fino a ridurlo ad oggetto fra altri oggetti, realtà anonima, scollegata dal resto dell'esistenza.
Viene da chiedersi quale visione del mondo porti in sé celata tale esperienza, in questa indagine tormentata entro un "corpo malato" in cui il soggetto si rifugia quasi fosse l'unica condizione di percepirsi al mondo.
E' evidente che si tratta di una visione dell'esistenza in cui la malattia ha assunto un valore primario: infatti l'ipocondria si fonda su una condizione particolare, in cui è andata perduta "l'ovvietà naturale del vissuto di integrità corporea".
Essere malato, essere frammentato, essere cosa smarrita tra altre cose, è diventato norma, non accidente.
In questa prospettiva l'ipocondria rappresenta allora una delle condizioni esistenziali in cui il soggetto, nel fare l'esperienza arcaica del "male" _ il male di vivere, il mal-essere quale esperienza umana universale _ torna a sentirsi irrimediabilmente solo, gettato in una crisi radicale che gli fa perdere il contatto con se stesso e con gli altri significativi, nonché il senso di continuità con altri momenti ed altri stati di ben-essere, in un'alienazione dal mondo in cui finisce per vivere come assoluto l'accidentale.
Ciò che l'antropologo Ernesto De Martino ha ben definito come "crisi della presenza":
"La `presenza' (il Dasein) è sempre esposta al rischio di flettersi, di ripiegarsi, di naufragare, di restare prigionieri della situazione, di non deciderla, di non andare oltre di essa, di non trascenderla... E' il rischio di non esserci-nel-mondo... E' infine il rischio dell'assenza, della presenza che dilegua e scompare." In questo apparente isolarsi dal mondo ritirandosi nella propria "passione solitaria", l'aiuto che tacitamente l'ipocondriaco chiede ha a che fare con il recupero della presenza, attraverso un contatto ed un ascolto da parte di qualcuno che con lui regga il male senza cadere in quella assoluta "inevitabilità del male".
Tale recupero salvifico della presenza, a se stessi e al mondo, può avvenire solo attraverso una relazione che sappia tener presente la complessità e la profondità del male di vivere che dietro bizzarri ed improbabili sintomi si cela, evitando di ripetere quella banalizzazione che troppe volte ha lasciato solo il soggetto, in quella sofferenza che ha finito per essere considerata l'unica condizione esistenziale.


Agnese Galotti


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