Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Giugno 2001 Pag. 14° Agnese Galotti


Agnese Galotti

 STREAM OF CONSCIOUSNESS 

PAROLE... PAROLE... PAROLE

Siamo sommersi di parole e spesso ce ne lamentiamo..

Siamo sommersi di parole e spesso ce ne lamentiamo... parlando ulteriormente. Tuttavia è fin troppo facile convenire che c'è parola e parola: c'è parola che svela e parola che copre, parola di verità e parola che mente.
La parola di per sé non ne può nulla:
essa non ha valore assoluto; il suo essere o meno in relazione ad un pensiero, che possa dirsi tale, dipende dall'atteggiamento di chi la proferisce nonché di chi la ascolta.
Molte parole vengono appositamente indirizzate ad ascoltatori distratti o sovra pensiero ed hanno lo scopo di confonderli; altre vengono pronunciate con tale e tanto autocompiacimento, da chi ama sentir parlare solo se stesso, che non resta più spazio per l'interlocutore.
A volte le parole altrui vengono ascoltate con sufficienza o con pregiudizio e finiscono per non trovare reale ascolto. Altre volte vengono date per scontate, o avversate per principio.
Gli esempi di "uso indebito" o "abuso" della parola possono essere molti e riguardano i numerosi difetti di comunicazione di cui le nostre relazioni soffrono.
La sensazione, così spesso avvertita, di "troppe parole" dovrebbe invitarci a riflettere, anziché risolversi in facile lamentela.
D'altra parte percepiamo spesso il nostro stesso pensare come un avvicendarsi di parole, ma anche qui è il caso di discriminare: comunemente viene infatti usato il termine "pensare" per indicare numerose operazioni mentali che in realtà poco hanno a che fare con il pensiero e che potremmo meglio indicare come: raccontare, descrivere, immaginare, fantasticare, rimuginare, razionalizzare, ...
Se vogliamo riferirci ad un vero pensare, allora facciamo capo ad una parola chiara, che proviene dall'intelletto, una parola accompagnata da un sufficiente distacco da ciò che è mutevole come l'umore, contingente e soggettivo.
Tale distacco richiede una certa pulizia mentale, una capacità di fare il vuoto e di liberarsi dalle tante parole e dalle troppe immagini che ingombrano la mente e la confondono: richiede di saper distinguere il rumore dalla musica.
In filosofia si fa riferimento al concetto greco di Logos: parola, ragione, intesa come ragione universale che governa il mondo, principio per eccellenza, verità essenziale, accessibile all'individuo che sia capace di riconoscersi al di là della dimensione individuale: che sia capace di pensare.
L'esordio di Giovanni l'Evangelista suona esplicito: "In principio era il Verbo".
Il Verbo, come Logos, puro pensiero, è dunque l'origine di tutto ciò che è.
Quindi tutto ha a che fare con il Pensiero.
Ma noi sappiamo anche che "il Verbo si è fatto carne", quindi ciascuno di noi, nel suo essere specifico individuo, è manifestazione concreta del Verbo, della parola, e quindi del pensiero.
In ciò è espressa la necessità che il pensiero ha di prendere corpo, di entrare a far parte della vita, di partecipare a quella quotidianità che solo erroneamente rischiamo di giudicare come "altro" dal Pensiero.
E qui si apre l'affascinante contraddizione che caratterizza la nostra vita di esseri umani in quanto, nel nostro essere particolari individui _ spesso anche chiacchieroni e "parolai" _ siamo contemporaneamente manifestazione del Verbo e dunque portatori di quella parola di verità che attraverso noi cerca espressione.
Difficile è conciliare queste due realtà senza cadere in facili confusioni, senza sminuire la grandiosità di ciò che in noi è, e al contempo senza scivolare in una inflazione egoica che si manifesterebbe come insana follia.
Mentre riflettevo su queste cose mi è capitata l'occasione di vedere un film cult degli anni cinquanta, un film danese, che narra proprio di questi argomenti: si tratta di "Ordet" "La Parola" di Dreyer, Leone d'Oro a Venezia nel 55.
Vi si narra la storia del vecchio Martin Borgen, uomo assai religioso, e dei suoi figli, uno dei quali, Joannes, ex-studioso di filosofia, è da tutti considerato malato di mente in quanto si crede Gesù Cristo e parla solo attraverso citazioni evangeliche, tratte, non a caso, dal vangelo di Giovanni. "Io sono la luce del mondo, ma le tenebre non mi hanno accolto." Il vecchio padre ed i fratelli di Joannes sono dolorosamente coinvolti nel rincorrere e riportare a casa il giovane che, non rivolgendosi mai a loro personalmente, parla ad una fantasmatica folla e sembra perso in un mondo tutto suo.
Accade poi che egli preveda la morte della cognata Inger, figura significativa in quanto centro delle relazioni interne alla famiglia Borgen, e che ella effettivamente muoia di parto. Joannes scompare, sconvolto dagli eventi e nessuno riesce a più a ritrovarlo.
Quando fa ritorno a casa qualcosa in lui è cambiato: egli guarda in faccia i suoi interlocutori e vi si relaziona parlando loro direttamente. La sua fede non è diminuita ma è come se egli avesse compreso profondamente la necessità di comunicare con gli altri affinché la Parola possa attuarsi.
L'interlocutrice privilegiata risulta essere la nipotina, figlia di Inger, la quale senza sforzo alcuno crede, con la spregiudicatezza dei bambini, ciò che lo zio afferma con convinzione: e cioè che la mamma si sveglierà, che basta pronunciare la parola con fede affinché il miracolo accada.
E così, con l'aiuto della piccola, che semplicemente sta, sorridendo, accanto a lui che pronuncia la parola ("Chi crede in me non morirà in eterno"), Joannes riconduce Inger alla vita.
Può esser letta come una favola, oppure come una attualizzazione _ magari troppo concretistica _ del messaggio evangelico, non è importante: ciò che conta è che quel film ha un potere toccante incredibile. Fa vibrare, dentro, la consapevolezza profonda dell'enorme potere che la Parola, pronunciata in presenza e consapevolezza e soprattutto con fede, ha di incidere e trasformare ovvero di togliere il velo delle illusioni e di mostrare ciò che veramente è. E questa verità, così radicale, senza dubbio fa paura.
In realtà sappiamo, abbiamo sempre intuito il potere di ciò che pensiamo e di come lo pensiamo nonché di ciò che diciamo e di come lo diciamo Joannes ha dovuto rinunciare all'incontro esclusivo con Dio; ha dovuto far spazio ed aprirsi alla relazione con l'altro, con il simile, affinché la parola di fede si generasse nel mondo e là incidesse concretamente.
La parola "potente" è quella in cui è partecipe ed attiva la presenza del soggetto che si riconosce tale, nel suo essere uno con dio e contemporaneamente relativo _ cioè in relazione con gli altri soggetti, pena l'isolamento in un mondo autistico.
Ecco perché la parola ha essa stessa necessità di essere comunicata: i mistici parlano o scrivono, si trovano comunque a comunicare ciò che vivono nella loro intimissima solitudine.
Ecco perché, insieme al silenzio, al vuoto, è fondamentale imparare a reggere il peso della parola che svela.
Come cogliere allora la differenza tra parola e parola?
Differenza c'è e si può constatare:
nel dire in prima persona "la parola", la parola che costa, che coinvolge tutto l'essere e che, per come è possibile in quel momento, lo esprime, l'individuo si trasforma.
Ma questo richiede radicalità e amore profondo per quella stessa parola che da dentro preme per essere detta.
Ed allo stesso tempo richiede la disponibilità a tacere, a contenersi fintantoché la parola sarebbe parola pigra, vuota.
Altrimenti perché, insieme alle "troppe parole" ci sarebbero tanti "non detti" a rendere difficili le relazioni umane?
Al solito ogni realtà, per completarsi, chiede di affiancarsi al suo opposto:
la parola al silenzio. Situazioni in cui non è di casa il silenzio è ben difficile che contengano parola vera.


Agnese Galotti


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