Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Giugno 2001 Pag. 9° Tullio Tommasi


Tullio Tommasi

 SCHEDE 

NORMALITA'

I nani e i giganti non sono normali

perché si discostano molto dalla media statura. Alcuni si accettano, altri no, comunque tutti i troppo alti o i troppo bassi portano con sé un sentimento di anormalità.
Così accade per ogni caratteristica che significativamente dista dalla media.
Se per gli aspetti fisici è relativamente semplice definire le qualità medie e quindi normali (è sufficiente un po' di statistica), più complessa diventa la questione quando si tratta di aspetti comportamentali e mentali. Se, per esempio, mi vesto in modo stravagante non sono normale, in quanto non rispetto certi usi convenzionali della società a cui appartengo. E' noto che usi e costumi cambiano col tempo e con la geografia, quindi appare sensato parlare di convenzioni mutevoli.
Ma la convenzione da dove arriva?
Qui si apre un grande dibattito che, semplificando, potrebbe vedere due contrapposte fazioni. La prima parla di leggi, innate o date da qualche Ente al di fuori di noi. La seconda, che condivido, parla di acquisizione storica all'interno di ogni gruppo sociale: le abitudini, i prodotti umani delle nostre attività, le pratiche e i riti creano una ragnatela di norme che noi diamo per certe, normali. Quando queste abitudini sono ormai consolidate e riconosciute dalla quasi totalità di persone, allora esse diventano scontate e vengono agite automaticamente, senza metterle in discussione.
Wittgenstein parla di giochi linguistici per indicare una serie di convenzioni che, all'interno di un certo contesto, permettono la reciproca comprensione. Ma non esiste un solo gioco, bensì infiniti:
ogni gruppo, società, epoca storica ha i suoi.
Si potrebbe dire che ogni coppia di amanti ha un suo linguaggio, comprensibile solo dai due protagonisti.
Quando dico la parola "tavolo", subito qualsiasi interlocutore sa di cosa sto parlando, ha un suo concetto di un oggetto che è molto simile al mio. Se per caso l'interlocutore non mi capisce attribuisco a lui una anormalità, ovvero una non appartenenza al mio gruppo di riferimento (potrebbe essere un bambino che non ha ancora acquisito il linguaggio, o uno straniero che non capisce l'italiano, o uno fuori di testa).
Il principio di realtà, di cui parla Freud, è quindi un adeguamento a certe norme che fanno assumere significato a tutto quello che è esterno a noi.
Senza un gioco linguistico condiviso ciascuno di noi sarebbe autistico.
Possiamo dunque concludere che la stragrande maggioranza di noi è normale, per certi versi banale: le coordinate di vita che ci permettono di procedere sono pressappoco uguali per tutti, con buona pace di chi si sente fuori dal gregge.
Eppure legata alla parola normalità spesso c'è sofferenza.
Soffre chi si sente troppo normale e chi si sente anormale. Nel primo caso c'è l'incubo del grigiore, della banalità, della mancanza di una vita piena di effetti speciali (vissuti da altri lontano dalla propria vita). Nel secondo caso c'è la solitudine di colui che non si sente riconosciuto in un gruppo.
Il senso di appartenenza è fondamentale e per essere accettato ciascuno di noi sacrifica una parte di sé a delle regole esterne. Questo meccanismo è alla base della costituzione del "falso sé" di cui parla Winnicott. Secondo questo autore, un bambino che non si sente compreso tende a nascondere le sue vere caratteristiche per adeguarsi alle aspettative dei genitori. In tal modo sarà accettato e svilupperà un senso di appartenenza, ma sacrificherà la parte più genuina di se stesso.
Questo atteggiamento si riproporrà nel corso della vita, in forme più o meno gravi. Tale tematica assai nota fa luce sui vari sentimenti di divisione che spesso accompagnano molte vite. Per fare un esempio tra i tanti, è sufficiente ricordare una novella di Pirandello in cui il protagonista era un uomo di successo, stimato, rispettato. Ma nella solitudine del suo studio provava la pulsione di prendere la sua cagnetta per le zampe posteriori per farle fare la carriola nella stanza. Un gesto senza senso, nel disperato tentativo di fare emergere il vero sé soffocato dalla maschera sociale.
Alla parola normalità è associato spesso un certo disprezzo. Ciascuno, sentendosi unico, si riconosce tutt'altro che normale. Quindi la paura del gregge determina formazioni reattive di ribellione per distinguersi. Ciascuno di noi individua _ magari tacitamente _ una o più categorie di persone ritenute "normali" in senso spregiativo, il che ci illude che le nostre vite siano speciali. Anche la persona più grigia e banale avrà in cuor suo un'immagine di qualcuno che è più normale di lei.
Nella nostra società massificata, quindi, diventa ormai un atto di merito atteggiarsi da anormali, contrastando con i propri atteggiamenti le regole d'uso comune. C'è quasi una rincorsa a fare gli strani, senza accorgersi che poi si finisce in un altro contesto usuale che attua un gioco linguistico dove la propria stranezza diventa normalità.
Detto questo, è importante riconoscere che nessuna convenzione, per quanto utile e inevitabile, potrà classificare una singola vita. L'uomo medio non esiste, ma è solo un gioco statistico per cercare di dare sicurezza all'esistenza. La regolarità e la forma sedano l'angoscia proveniente dal caos. Le classificazioni psichiatriche delle varie malattie mentali hanno, tra le altre cose, la funzione di salvaguardare un senso di normalità al quale ci si aggrappa nel momento in cui si può descrivere la malattia. Dunque ciascuno di noi è normale in quanto condivide un sistema di riferimento, anche inconsciamente, ma è anche singolare, ovvero anormale, per le peculiarità che lo caratterizzano.
Spesso questa discrepanza causa malessere profondo in chi si trova diviso tra diverse parti di sé contrastanti.
E' salutare portare alla luce, far vivere la propria essenza, ovvero ciò che si è veramente, senza compromessi di comodo per essere ben accetti. Al contempo non ha senso assumere atteggiamenti superbi o presuntuosi per la propria diversità, in quanto in tal modo ci sarebbe una normalità da combattere, un nemico da affrontare; e il sentirsi anormali comporta sempre un sentimento di esclusione, e quindi di sofferenza.
L'unica soluzione mi pare sia quella di riconoscersi assolutamente normali, qualunque cosa si faccia. Questo non è un inno alla psicosi: se i nostri comportamenti diventassero davvero psicotici, non troveremmo interlocutori che entrano in empatia con noi e avremmo un senso di estraniamento dal mondo quotidiano, con conseguente sofferenza.
Un esempio può forse essere di aiuto. L'omosessualità è l'anormalità per eccellenza. Se una persona omosessuale spera nella normalità sociale avrà una vita di frustrazione, in quanto, a tutt'oggi, la nostra società è basata sulla coppia eterosessuale. Tale persona sarà destinata a vivere nell'ombra.
L'altra possibilità è quella di assumere un atteggiamento di superbia e arroganza, per contrastare la normalità atteggiandosi a diversi che sbandierano il loro essere.
In questo caso c'è comunque un senso di non completa accettazione di se stessi, perché una propria caratteristica diventa la ragione della propria vita (e la vita non si esaurisce nella sessualità e affettività).
Un'altra possibilità, difficile da seguire ma sempre più frequentata, consiste nel sentirsi assolutamente normali, quasi banali.


Tullio Tommasi


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