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Direttore : Dott. Ada Cortese
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N° 01 Ada Cortese

Ada Cortese

 CONFERENZE 

MICROANALISI DEI NOSTRI RITUALI QUOTIDIANI


Definizione di rito e di rituale
 

Il rito in sè non è facilmente definibile perchè ha a che fare con il lato numinoso che si manifesta mentre la cerimonia del rito, il rituale, viene celebrato. Il rito è quel particolare recinto entro cui per la fede dei partecipanti si può manifestare una forza divina e trasformativa a cui non si può accedere direttamente, privatamente e sensibilmente. Il rito dunque si compie da sè in virtù della celebrazione dell'officiante che esegue concretamente il rituale.
Il contenuto del rito riguarda una trasformazione che non può mai essere ricercata o evocata da una sola delle due parti: l'officiante senza i fedeli e viceversa. Ciò che li aggrega è la fede che il rito si compia. Che il vino si trasformi in sangue, che il piombo si trasformi in oro, che il cadetto si trasformi in ufficiale, che l'allievo si trasformi in maestro, ecc.
Quando una delle due parti manca si è o davanti alla magìa (che può essere solitaria, il mago evoca le forze divine attraverso il "magico agiogramma")) o al miracolo (in cui la trasformazione è visibile e percepibile).
In ogni caso il rito è la "cosa divina" irrappresentabile come l'archetipo junghiano. Se ciò a cui esso allude ha a che fare col sacer ovvero col sacro inteso come sostanza e luogo del divino che si nutre della fede, il rituale ha a che fare con il sanctus ovvero con la legge, con il sancito ed è l'insieme dei comportamenti e delle formule attraverso cui il rito si compie. Ma sempre in un altrove rispetto al tempo e al luogo degli uomini creature.
Il rito, per sua natura, non può mai realizzare l'intento pena il suo decadere a procedura o a ricetta. Nella magìa, quando esso riesce nell'intento trasformativo, diventa procedimento ripetibile.
Quando la materia, nel crogiolo dell'alchimista, si trasforma e libera in un lampo, l'energia in essa contenuta, il mago comprende d'aver scoperto qualcosa. Egli cancella dal libro dei rituali magici ciò che ha operato e trascrive nel libro delle ricette e delle procedure la formula della polvere da sparo!
Quando dunque la magia s'imbatte in un'operazione che funziona, essa fa a meno del rito e procede secondo un metodo già sperimentato direttamente e consapevolmente verso l'obiettivo.
La magìa, diversamente dalla religione, cerca di imbrigliare tutte le forze universali. Essa tenta di superare la scissione tra naturale e sovrannaturale. Essa è stata ponte verso la scienza.
La religione invece si fonda sulla scissione, l'elemento a sua volta sostanziale per la preservazione del sanctus. Se la magìa ricorre al rito e al sacro per averli alleati nel suo naturale spirito di ricerca, la religione ricorre al rito e al sacro intesi come sostanze umanamente irraggiungibili proprio per mantenerne la distanza. Essa allora si nutre del sanctus, dunque della legge e del rito, più che del sacer e anzi usa il sanctus come barriera difensiva contro l'irrompere del sacer.
La religione conserva il rito e il rituale conservando l'altrove e ritiene che ciò sia buono per l'uomo a cui non farebbe bene una più intima frequentazione del sacer, del numinoso. E per il passato, e per ampie zone di psichismo primitivo tutt'ora in vita, essa deve aver avuto, ed ha, sicuramente ragion d'essere.
 
Analisi psicologica del rito e del rituale
 

Dopo queste premesse vorrei soffermarmi brevemente sul significato psicologico del rito al di là delle sue connotazioni magico-religiose per aprirmi il varco alla trattazione dei nostri piccoli rituali quotidiani.
Da un punto di vista antropologico e psicologico il rito è l'operazione attraverso cui l'individuo si fa affiliare dal branco attraverso la sottomissione totale ad esso accogliendone incondizionatamente la fede, lo statuto, le regole e la legge per ottenerne in cambio protezione, identificazione e conferma esistenziale contro l'indeterminatezza dell'essere. Il gruppo è il cerchio sacro, mediato dal religioso o dal magico, da cui il singolo riceve lo stato di grazia avendone accettato il rito iniziatico.
Si può definire stato di grazia, sottraendo tale concetto al mero ambiente religioso, il riconoscimento con cui il branco dimostra il suo gradimento per l'individuo che gli si è sottomesso pubblicamente concedendogli il diritto di esercitare un potere che si può esprimere solo in virtù di tale riconoscimento.
Essere in stato di grazia vuol dire esercitare il potere al massimo e al meglio in grazia di qualcun altro: il sovraindividuale, il branco (il gruppo, l'istituzione, dio, il Sè).
Perchè si compia il rito dell'iniziazione dell'appartenenza, il rituale prevede la cerimonia con la quale si stringe il patto, si firma il contratto, il testamento, ecc. tra l'individuo e il sovraindividuale, branco, la sua Legge, il trascendente, la divinità. Ricordiamo alcuni esempi: il patto di alleanza tra dio e gli uomini, il V. e il N. Testamento, i riti di iniziazione a società segrete, il patto di sangue, ecc.
La liturgia è il rituale riguardante un'entità sovraindividuale attorno a cui si sia costituito un corpo istituzionale storicamente significativo. Più specificamente liturgia è l'insieme del corpo rituale dell'istituzione religiosa che ricorda e riconferma la validità del contratto, del patto di sangue e tutti i contratti iniziatici.
E' interessante notare da un punto di vista psicologico l'aspetto alienante del rito iniziatico: esso comporta sempre inesorabilmente il sacrificio al branco di una parte di sè in cambio della conferma e dell'appartenenza. Se poi si considera che l'individuo umano ha bisogno del branco emerge ancora una volta la paradossalità della crescita coscienziale.
 
L'indivisibilità dell'esperienza esoterica ed essoterica nella nostra società come segno evolutivo della consapevolezza possibile
 
Nella nostra società ormai così scarna di riti collettivi l'iniziazione esoterica e quella essoterica vanno insieme. Passare 10 mesi alla "leva" può avere lo stesso valore iniziatico dell'inutile gesto che Milarepa doveva compiere sistemando pietra su pietra in mucchio per poi vederselo distruggere e rifarlo nuovamente e così via. Anche la maggior parte degli anni passati nelle nostre ammuffite scuole, ecc..ecc.
Ma non v'è rito nè iniziazione se non c'è chi ne faccia diretta esperienza, ovvero se manca chi la sappia registrare come tale. Se questo soggetto capace e generoso manca ciò che potrebbe andare bene per diventare grandi e liberi (qualsiasi stupida ripetitiva pesante alienante vicenda quotidiana, qualsiasi stupida e ingiusta istituzione, qualsiasi brutta configurazione familiare) viene respinto ed ha la meglio l'atteggiamento rivendicativo di chi sta dentro al rituale (all'esperienza formalmente, essotericamente ed egoicamente percepita) senza uscirne mai. Tale personalità infantile in realtà non desiderare neppure uscire dal rituale, anzi ne chiede sempre e sempre di migliori. La cosa drammaticamente paradossale è che qualsiasi realtà, persino il lager (si pensi alla testimonianza di Etty Hillesum) può andare bene per arrivare al frutto di se stessi e della vita.
Nella nostra capacità di sgusciare via dall'identificazione totale e pietrificante con le situazioni, di qualunque segno esse siano, sta il potere alchemico di trasformare la materia vile in oro. Se si vuole incontrare la propria essenza e l'essenza della vita non è possibile mantenersi in un rapporto unilaterale di dipendenza edipica dal gruppo nè a questi si può chiedere di concederci in modo più efficiente l'investitura.
Il rito ha sempre fatto questo, fa questo ed è funzionale a questo: pone le premesse per poter essere prima o poi superato, negato da una soggettività che gli è superiore.
 
Pulsione alienante e sacralità
 

Possiamo supporre, insieme alle scienze etno-antropologiche e paleontologiche, che l'esperienza del sacro, del sacrificio (inevitabilmente collegato alla violenza), del rito e del rituale avessero in origine vita simultanea interdipendente e che solo insieme producessero il fenomeno ontologicamente significativo.
Nel loro venire in forma producevano ed erano tutt'uno con il tabù e con il simbolo.
Il sacro è uno spazio tabù agli umani ed è contemporaneamente offerta e riconoscimento di spazio per entità sovraumane e sovraindividuali per propiziarsele. Sacrificarsi è rendersi sacri, ovvero offrirsi all'entità sovraindividuale. Sacrificio è offerta all'entità sovraindividuale e divina di doni tanto più preziosi quanto più vitali e viventi. Ecco spiegato il perchè della violenza nel sacro. Sono sposati alla radice.
Sacralizzarsi è ottenere la benedizione in virtù dell'ente superiore canalizzando verso di lui le forze vitali dei singoli e del gruppo che, non sacrificate potrebbero diventare forza autodistruttiva del gruppo medesimo. La con-sacrazione produce l'effetto psicologico di sentirsi affiliati al dio o al capobranco; la sacralizzazione produce l'effetto psicologico di sentirsi appartenenti ad una Potenza superiore. Appartenere: unire una parte ad un preesistente aggregato di parti della stessa natura, della stessa famiglia. Il termine religiosità ha lo stesso significato: religiere ossia legare insieme cose analoghe. Con il rituale gli individui e il branco imparano a celebrare il loro legame trasformando un dato preculturale, la loro reciproca interdipendenza, in terreno di progressiva coscienza. La cosa affascinante è l'alta probabilità che il gesto abbia preceduto la coscienza del suo intento.
La sacralità deriva da libido trattenuta e deviata in ascetica dimensione che riversa se stessa come benevolenza anonima e divina dopo essersi risparmiata all'uso immediato e privato dei singoli suoi portatori iniziali.
Dal punto di vista soggettivo e psicologico essa ha a che fare con il fascino dell'alienazione deresponsabilizzante del singolo alla quale corrisponde, se così si può dire, la spinta verso la ricostruzione di una quiete originaria e di un'originaria fusione.
 
Dialettica dell'individuazione tra quiete e tensione, tra differenziazione e confusione
 

Proviamo a ricordare la dialettica dell'individuazione.
Il processo di cui ci occupiamo è sempre lo stesso. Cambiano le metafore. Altrove lo abbiamo riferito alla ignoranza secondaria. Stavolta lo dobbiamo riferire alla individuazione che mira a tornare all'Uno indivisibile e determinato attraverso il processo dialettico che nei singoli prevede due momenti:
- la differenziazione del singolo che prende distanza dal contesto sociale di riferimento (che sia corpo di pensiero o corpo sociale concreto); é il momento dell'Io, il dominio della coscienza e del lavoro a cui il singolo uomo, come struttura conoscitiva individuale, è chiamato;
- la trasformazione della differenza del singolo in un nuovo contesto sociale di riferimento (concreto o conoscitivo che sia) entro cui il singolo possa nuovamente confluire e con-fondersi alienando la sua differenza (coscienza , ricerca) nell'uguaglianza (a-coscienzialità, sapere. Per esempio la guida automatica della macchina) con i suoi nuovi simili. In questa situazione di provvisoria quiete e di equilibrio instabile, il singolo permarrà fino a che non ne percepirà nuovamente il lato alienante, si scoprirà egli stesso alienato e, suo malgrado, in virtù di tale coscienza uscirà dall'uguaglianza, in cerca (nuovo momento di ricerca) di una nuova irraggiungibile unità che, nuovamente, lo mantenga nell'alienazione incosciente ovvero in una transitoria pacificazione edenistica (sempre fantasmaticamente collettiva, universale, tutt'uno con il sapere acoscienziale) che durerà il tempo necessario a che la coscienza, ancora una volta, non si sia ripresa dalle fatiche precedenti e, rimettendo in crisi la metafora conoscitiva provvisoriamente capace di colmare il bisogno soggettivo di relazione, di unità ed integrità, percepirà la prigione della finitezza, si sentirà alienata e tornerà a cercare. Così di seguito, per tanto tanto tempo, non trovando ciò che cerca, proseguirà nella differenziazione, ricercherà nuovo riferimento sociale, nuova uguaglianza e con-fusione, e così via su livelli di coscientizzazione crescenti.

L'impossibilità della trasformazione vera durante il processo
 

La trasformazione della libido da umana in sacralità, in conoscenza, tramite proiezione, rappresentazione, ecc. avviene attraverso il rito. Nella cerimonia solenne del rito e del rituale nasce il simbolo corrispondente a quella trasformazione ma mai la realizzazione immediata della trasformazione stessa (es.: il rituale Wachanda). Essa non può realizzarsi pena il cortocircuito del processo di conoscenza che per potersi svolgere appieno ha bisogno di questo povero uomo, la coscienza, che deve lasciarsi sbattere tra le due opposte sponde dell'essere, scisso tra particolare e universale, per travasare l'energia dell'essere stesso dall'inconscietà alla consapevolezza. Quest'ultima ha sede nel cuore del simbolo, presso cui l' uomo non può immediatamente e a lungo sostare dovendosi restituire alla coscienza, ossia al suo lavoro. E il lavoro che la coscienza svolge è quello di procedere di metafora in metafora verso mondi sempre più eterei, ampi e reali essendo essi i mondi del pensiero che vivono e sono della stessa sostanza che fa l'universo di cui sappiamo.
La coscienza produce la massima distanza dall'essere ma è anche quella spoletta capace di articolare e produrre il mondo reale dell'uomo e del verbo. Fino a trovare, discorrendo e ricercando, che questa parola è la parola dell'essere tutto, a cui tutto può essere finalmente restituito con suo grande sollievo. La coscienza finalmente può liberarsi della responsabilità e della custodia del patrimonio conoscitivo. La conoscenza dell'universo, meglio, la conoscenza della dinamica universale, è impegno e fardello troppo pesante per poter essere retto da una struttura riflessiva individuale. Non c'è che il suo precipitare (o elevare) in una struttura riflessiva universale in cui ciò che si riflette è la forma finale, la consapevolezza della forma totale, del soggetto universale al di là dei suoi singoli contenuti o sottosistemi. A quel punto è giusto riposare, essere altrove, morire. Essere totalmente Altro.
E' il tempo in cui la trasformazione finalmente si realizza veramente e il processo universale che ad essa tendeva si conclude.

Ma bisogna arrivarci attraversando tutto il lavoro necessario nella massima presenza dialettica perchè se non si tiene a bada la frenesia della Terra Promessa si rischiano due cose:
- di inciamparsi nella patologia conclamata delle nevrosi ossessive o in quella nascosta dei più frequenti microrituali quotidiani;
- di perpetuare rituali anacronisticamente liturgici contribuendo alla manifestazione aberrante dello Spirito.
E' evidente che la naturale simpatia vada alla prima soluzione perchè essa denuncia perlomeno il capolinea a cui la coscienza si trova e dunque la necessità di un nuovo collasso della struttura conoscitiva umana in una nuova struttura capace di sintetizzare e di percepire in sè il corpo e la mente del mondo, una struttura conoscitiva capace di percepirsi come catalizzatore di Vita Evolutiva. La patologia ossessiva e ritualizzante denuncia perlomeno questa crisi e se ne fa sintomo rispetto a chi riesce a rimuovere, tornando indietro, e rimettendo in circolazione una ritualità che non è più attuale.
 
Rito, rituale, ritualismo
 

Il rito fa il sacro
. Esso evoca l'altrove ed il trascendente producendo il tabù.
Il rituale fa il mondo
perchè fa i simboli della trasformazione.
Il rituale è la cerimonia stessa attraverso cui il rito si compie nonchè la ripetuta rievocazione del rito iniziatico stesso, dunque della trasformazione e del simbolo vuoi per rinforzarli, vuoi per riconfermarli, vuoi per esibirli, ecc. ecc. Ma più il rituale si fa ritualismo meno evidente si mostra il suo originario nesso con la sfera del religioso.
Il ritualismo frena il mondo.
Esso rappresenta la recalcitranza, la resistenza della coscienza quando ormai è tempo che essa proceda abbandonando le vecchie postazioni (la vecchia credenza, la vecchia gestalt) e accettando il salto verso l'ignoto. Il rituale diventa ritualismo quando viene a mancare un elemento importante e costitutivo:
- la fede e la credenza condivisa;
- la configurazione psichica che di esso, rituale, abbia necessità.
Il rituale anacronistico si erge a difesa della coscienza quando questa dovrebbe collassare verso nuova configurazione.
Il rituale religioso anacronistico è aberrante e si fa ritualismo perchè, attraverso di esso, gli uomini che pure avvertono un forte richiamo spirituale, invece di coscientizzarsi del frutto del rito e del rituale lungo i millenni, lasciano ancora lo Spirito in un altrove e mentre dicono di evocarlo e di celebrarlo lo imprigionano sempre di più. Il ritualismo religioso è rituale superstite. E' superstizione. E' oscurantismo perchè si nutre di necrofilia: riproduce una liturgia, una cerimonia per mantenerla a barriera contro l'esplosione del sacro in noi, del rito in noi. Potremmo assistere per la prima volta alla realizzazione della trasformazione e compiere il rito sentendoci noi con esso coincidere: noi rituale, rito e sacro, in uno; noi strumento, opera e fine in uno oltre ogni tabù. Se il sacro ed il rito si compiono consapevolmente dentro di noi, essi muoiono fuori di noi. Gli ultimi costruttori di nuove religioni, volendo fuori tempo mantenere il rituale, mantengono fuori tempo l'altrove e così il rituale si fa ritualismo. Si credono collaboratori di Dio, in realtà con il persistere in pratiche e liturgie affastellate da ogni parte del globo ma secondo la modalità antica che scinde inesorabilmente il celebrante dal celebrato, essi allontano quel dio che non sopporta più nessuna distanza, nessuna dialettica, nessuna mediazione, nessun terzo intermediario pretendendo egli un rapporto d'amore intimo, esclusivo, di coppia, fedele e indissolubile per la vita, e un amore che si può fare sempre sotto gli occhi di tutti. Io sto facendo l'amore con dio avanti a tutti, avanti al mio lavoro, avanti al mio compagno terrestre, avanti a mia madre, a mio figlio, io faccio spudoratamente l'amore con dio. Ma quando non è accolto consapevolmente, dio, ovvero il numinoso che comunque esiste, si manifesta come può nel nostro mondo moderno. In tanti modi tra i quali:
- il dilagare del panico e del terrore fobico da un lato,
- il dilagare della nevrosi ossessiva e del ritualismo dall'altro.
 
Zoomata sulla fenomenologia della nevrosi ossessiva
 

Nelle patologie di tipo ossessivo il rituale si mostra come sintomo assai pesante che divora buona parte della libido individuale. Se ipotizziamo zone mentali primitive possiamo anche ipotizzare che esse cerchino di risolvere i problemi di relazionalità, integrità e le esigenze di unità con una forma coatta e rigida che riproduce poveramente la soluzione originaria. La cerimonia collettiva e sacra diventava per i nostri progenitori momento di solidarietà sociale e di catarsi delle tensioni esistenziali. Esse erano in numero rilevante se pensiamo alle fasi critiche dell'esistenza dell'uomo primitivo rispetto alla nostra esistenza moderna sicchè molti dovevano essere i momenti rituali e collettivi per far fronte a tanta tensione. Forse l'intensità ed il tormento dei rituali della nevrosi ossessiva trovano le loro radici in quel lontano passato in cui la cerimonia rituale funzionava perchè v'era la partecipazione collettiva ed una intenzionalità di superficie, più o meno cosciente, condivisa. Soprattutto era quello un tempo in cui v'era consonanza tra rituale ed evoluzione psichica del tempo. L'inconscio era davvero l'inconscio e non quel magazzino attuale di conoscenze e pensiero lasciati a marcire in una dinamica che ha molto più a che fare con il rimosso culturale (e con l'ignoranza primaria mediata) che non con le angosce delle pulsioni primordiali.
Oggi l'individuo è solo, ha ed è più coscienza. Ed è anche più solo in virtù del suo essersi maggiormente determinato, configurato e differenziato. E' inevitabile. La maggiore individuazione procede insieme al vissuto di maggiore solitudine. Ma è talmente il carico della responsabilità della consapevolezza lasciata inconscia di sè, nel singolo, che questa stessa responsabilità, se non ritorna al sovraindividuale , schiaccia l'individuo.
Quando noi parliamo di demoni e di divinità in noi, parliamo poeticamente e allegoricamente. In realtà se riflettiamo a fondo e secondo la visione della psicoanalisi dialettica evolutiva, che ricerca costantemente il posizionamento del soggetto alla massima consapevolezza possibile, non possiamo più evocare questa pluralità polarizzata superstiziosamente dentro di noi come fa Hillman o le altre scuole che vogliono leggere e frantumare il soggetto attuale come fosse totalmente in balìa di quelle stesse divinità che possedevano l'uomo duemila anni fa. La forza dinamica è quella, l'apparato cerebrale è quello, ma non sono passati duemila anni di umano tempo e di umano dolore e di umana vita per nulla! Anzi, proprio perchè la dinamica è sempre la stessa, quella conoscitiva e autoconoscitiva dell'essere, c'è da rilevare caso mai che se non si ascolta ciò che oggi ci chiama da dentro, il prezzo individuale di tale sordità interiore sarà molto alto, ma non perchè vi sia una pulsionalità corrispondente a un dio o a un demone atemporale, che ci cattura, bensì perchè v'è un patrimonio conoscitivo che non viene attivato, ovvero che non viene accolto coscientemente.
Ripeto: siamo avanti al possibile quadro dell'ignavia e dell'accidia.
E' proprio questo atteggiamento di sordità che può determinare l'irrompere delle forze inconsce secondo un meccanismo sempre uguale a se stesso: la tempesta della numinosità. Numinosità che non è solo riferibile al potere insondabile ma anche al potere della conoscenza disponibile che, in quanto tale, è trascendente e dal quale non ci si vuol far trascendere. Una forza che ci attraversa per un tempo provvisorio, il tempo perchè da brutto anatroccolo rinasca cigno, da pollo si trasformi in aquila, viene sequestrata dal nostro ego che ne vorrebbe far bottino. Va da sè che ci distrugga!
Tornando ora allo specifico del nostro amico posseduto dalla modalità "nevrotica- ossessiva", spesso egli cresce in ambiente che non lo esercita a confrontarsi con le forze numinose, ctonie o spirituali, che siano. Superficialmente più protetto, trova meno occasioni per sperimentare la terribilità dell'incontro con tali forze numinose sicchè non produce in sè gli anticorpi spirituali ovvero una sufficiente elaborazione capace di garantirgli la presenza quando esse irrompono. Se irrompono non è male purchè esse trovino sufficiente presenza capace prima o poi di assorbirle. Viceversa è la presenza ad essere assorbita dal numinoso ed è la psicosi. La mia ipotesi è che vi siano in età infantile meno esperienze di vissuti numinosi attraverso il panico, il pavor nocturni, le fantasie, le paure o i sogni; temo vi sia meno possibilità per i bambini di accoglierle lasciandosi invadere per lunghi terribili istanti da esse; temo vi sia meno sperimentazione del sentimento della paura e del terrore (non diventano sentimenti familiari, abituali) mentre cresce un mondo disanimato, cresce l' evocazione controllata del numinoso basata sull'immediato e cortocircuitato sentimento di potenza nei suoi confronti (si pensi ai videogame, alle play-station, a certi giocattoli di animali preistorici mostruosi ecc.). Credo che questa alienazione negativa dell'infanzia a cui non si riconosce il diritto all'orrore della vita (che c'è) contribuisca in grande misura alla esplosione in età successive dei sintomi di panico, fobie, ossessioni, depressioni, ecc. che noi definiamo patologie ma che in realtà altro non sono che rivalsa dell'inconscio, ovvero della conoscenza rimossa, alla nostra unilateralità di branco e di supponenza egoica, che crede di non aver da portare in sè alterità con cui dialogare e con cui convivere.
Così i cosiddetti demoni e le divinità, ossia le forze oscure dell'inconscio, oggi molto più oltraggiate che in età antiche nonostante l'esibizione di discipline psicologiche, nonostante il loro nome nominato invano ecc., si prendono da sè le loro vittime sacrificali.
Ripeto: non è che ci siano demoni o divinità. Almeno non ci sono più per chi è nella consapevolezza profonda. Per il branco a cui apparteniamo sì! Esso non mostra di dare importanza al surplus energetico di consapevolezza che il flusso matematico tra i singoli ed il branco, quindi il rapporto circolare e spiraliforme, ha prodotto. Il branco non restituisce, pur avendolo nel suo corpo culturale, ai singoli suoi partecipanti, la consapevolezza, in sè ed in loro interiorizzata, del valore della conoscenza e della consapevolezza stessa. Questo bene di dio resta rimossa nei singoli che lo compongono e ciò li trattiene nel ritualismo - non essendoci più la fede - sottraendo forza al collasso evolutivo della struttura conoscitiva individuale che tenderebbe al proprio sfondamento per trasformarsi in struttura conoscitiva universale. Si può dunque dire che la scuola, la pedagogia, le istituzioni in realtà non aiutano il singolo ad esplicitare questo patrimonio che non si può definire di anima ma patrimonio di spirito.
E' come se tutte le forze in divenire andassero a spiaccicarsi contro un muro che non viene oltrepassato e tutto ciò che prima si ordinava si appiattisce e si sgretola in frantumi disordinati non potendo nè in sè preservare la vecchia forma nè confluire in una sintesi nuova. Il muro è impermeabile, invalicabile, repellente al cambiamento e al contatto per quanto violento.
Il flusso che passa attraverso l'unico corpo che va dai singoli al branco e dal branco ai singoli non realizza oggi la restituzione: quello che i singoli danno al branco lunghe le loro vite, al sovraindividuale, questi non restituisce con altrettanta concretezza e velocità ai singoli i quali si sentono schiacciati da quanto dentro di loro c'è ma che non trova interlocutore sovraindividuale che lo riconosca perchè esso, il branco, non sa ritrovare in se stesso identica sostanza e così ciò che è soprattutto suo e custodito dai singoli resta disconfermato ed in balìa dei singoli. Ne deriva come un ingorgo libidico. Un ingorgo libidico fatto di patrimonio coscienziale rimosso e di tensione conoscitiva disponibile.
Questa è la conflittualità altamente esplosiva che è anche altamente evolutiva perchè nel momento in cui il singolo si rende conto del patrimonio e della tensione conoscitiva dentro di sè torna ad attivare quel meccanismo dialettico di differenziazione e di con-fusione che lo porta a gestire i momenti di lavoro e di respiro nell'alienazione necessaria, producendo divenire e confondendosi in esso.
Certo, finora, la colla tra il singolo ed il branco è stato l'inconscio comune ad entrambi. Oggi pare si ponga come necessità il bisogno di reciprocità tra i due lati dell'essere: l'individuale e l'universale nell'uomo. Ciò comporta l'estremizzazione automatica del bisogno di incarnazione ossia di concretezza della relazionalità nella reciprocità tra i due lati. E se si pensa ai tempi diversi con cui essi procedono (veloci nel singolo, lentissimi nel gruppo) si può facilmente intuire la disperazione che può produrre questa sorta di doppio messaggio che stavolta non una madre schizofrenogenica porta ma l'evoluzione tutta. GEA nasce come risposta accogliente il conflitto evolutivo.
Il lato esplosivo della conflittualità si produce nei cosiddetti nevrotici ossessivi, sintomi del salto evolutivo che riguarda tutto il sociale. Vengono definiti "malati" da tutti gli altri, i quali, pensandosi oltre ogni ritualità necessaria, approcciandosi in modo pre-spirituale alla vittima in realtà l'affossano ulteriormente nella sua solitudine, si affossano essi stessi, come comunità e come sovraindividualità, nella barbarie della pre-ritualità perchè non leggono ciò che il rito e ciò che l'approccio autenticamente rituale permetterebbero almeno di intuire.
Ho sentito recentemente che è stata istituita una festa dell'ecologia in cui si celebrano riti a difesa della natura contro l'uomo. In passato era l'uomo a ricercare difesa nel rito contro la natura. Questo aneddoto è l'ulteriore riprova di come tutto l'arsenale energetico del mondo nel suo lato distruttivo e creativo si sia concentrato ad alta pressione nell'uomo. L'uomo non ha da temere e da conoscere che se stesso. Ovvero il suo inconscio che non è inconscio personale ma rimosso patrimonio di tutta la collettività umana.
Ma ritornando al nostro discorso, la vittima designata arriva lungo la vita a contattare quelle risposte già trovate dagli antenati. Ripete un rito in sè e per sè sensato che però lo crocifigge mancando un tipo di assenso che sopperisca al limite e all'orrore del suo essere solo e senza interlocutore. La cosiddetta nevrosi ossessiva pare coincidere con il trionfo del rituale nevrotico stesso sulla presenza malata del soggetto che lo reitera senza trovare mai quella catarsi e quel rilassamento che lo intenziona nella ripetizione. Ciò di cui egli soffre è in definitiva la mancanza dell'interlocuzione simbolica.
Quello che il soggetto pare avvertire nell'esperienza del rito coatto e nella nevrosi ossessiva è il proprio stritolamento tra due forze uguali e contrarie:
- la necessità protettiva del circoscrivere e del circoscriversi, dunque del differenziarsi;
- l'incapacità di far fronte da solo a tale necessità. Dunque la necessità del branco che gli garantisca l'altro lato: l'appartenenza.
Da tale trappola egli non esce e resta inchiodato alla ripetitività.
"Sa" di esserci più come assenza che come presenza e cerca di venire ad esistenza come soggetto proprio attraverso l'attivazione di quelle strutture comportamentali che hanno contribuito in modo essenziale a fare della psiche umana quel mondo di presenza e di unione di opposti che è. Egli ritualizza portando in sè l'intento trasformativo e rigenerativo, dunque sacro, del rito e del rituale ma subisce lo scacco per mancanza dell'interlocutore universale (il gruppo, il sociale, il Tutto, nell'esperienza, nel pensiero) che solo, potrebbe garantirgli ciò di cui egli, definendosi e circoscrivendosi, cerca, senza riuscirvi, di far sacrificio: l'apertura sul caos e sulla voragine dell'essere. Egli vorrebbe da un lato perdere qualcosa che qualcun altro dovrebbe garantirgli: egli perderebbe l'apertura al caos circoscrivendosi. Egli ritroverebbe l'apertura al caos con-fondendosi con il suo branco. In realtà egli si finisce è basta, dunque si uccide.
La nevrosi ossessiva pare essere dunque una sorta di sopravvivenza arcaica della struttura psichica quanto a ricerca della soluzione del conflitto di fondo della vita autocosciente in germe: il conflitto tra bisogno e desiderio di esistenza e bisogno e desiderio di non esistenza. L'interlocutore sociale ha dato una enorme aiuto al singolo nella gestione di tale immane conflitto.
Il gruppo nel suo farsi realtà concreta di riferimento si costituisce a divinità incarnata capace di gestire quella energia dei singoli che i singoli non possono nella loro finitudine sopportare. Il gruppo vive ed ha bisogno di questa energia che è qualcosa di più potente, nel bene e nel male, della semplice somma delle parti; proprio come il singolo ha bisogno del gruppo.
 
Il quesito amletico del particolare e l'istinto di morte
 

L'esistere e il non esistere sono intimamente intrecciati come momenti affettivi del procedere dialettico dell'essere tutto e dell'uomo pensante nel loro lato però, diciamo così, solo individuale.
L'essere è per come si conosce. Quando si conosce vivente si sente anche morente perchè si sente nei confini, nel finito. Nel frammento è inevitabile si esprima con più crudeltà la lotta tra le due opposte tendenze: voler esistere, distinguersi, e non voler esistere, dunque voler semplicemente tornare all'essere anzitempo, tornare alla fusione. Nel particolare umano questo conflitto viene confuso tout-court come quesito amletico del particolare che vuole essere o non essere e viene inteso come conflitto tra istinto di vita ed istinto di morte. E' ciò che ha fatto Freud.
In realtà è a mio avviso un equivoco nascente dalla sfasatura e dall'incastro paradossale tra analisi di grandezze e di mondi differenti: l'istinto che Freud definisce istinto di morte descrive, se così si può dire, la pulsione all'estremo passaggio, all'estrema esperienza di fusione, all'estremo essere con il Tutto, all'estrema deresponsabilizzazione che nel particolare può produrre l'anelito al non esistere perchè esistere nel finito autocosciente significa reggere una conflittualità ad altissimo livello che il Tutto per definizione non conosce.
Ecco perchè dio si è innamorato ed ha avuto invidia dell'uomo ed è diventato uomo. Nell'uomo vi è l'altissima conflittualità nonchè l'altissimo incontro tra finito ed infinito, tra la parte ed il Tutto, tra la morte e l'immortalità. L'immediato tutto non può conoscere la morte e quindi non può conoscere nemmeno la percezione della vera libertà che nasce dalla percezione dell'unione degli opposti.
L'esistere dell'uomo, di questo particolare, è l'esistere di un punto in cui convergono e confliggono questi due modi opposti di riflettersi e di sentirsi dell'essere che è appunto la responsabilità di quello che sente e che riflette da un lato e il desiderio di non reggere più questo confine così pesante per tornarsene al tutto dall'altro.
La responsabilità rimanda sempre alla mancanza, al finalismo, all'obiettivo. Rimanda al compito, al finito, al mondo dunque della morte reiterata. L'istinto di morte di Freud in realtà si trasforma in ricerca e istinto di vita infinita, bisogno di uscire dalla morte che la nostra identità fondata sul finito garantisce.
Dal punto di vista del particolare se riponiamo la nostra identità solo nella nostra specificità storica, se l'essenza è questa, l'istinto di morte resta uscita totale dalla vita. Se la vita è questa.
Se invece riponiamo la nostra identità anche nel tutto di cui facciamo parte, la morte è l'estremo passaggio ed è anche l'estrema vita.
Ora ritornando però al particolare umano, in lui riaffiora con violenza la conflittualità esistere non esistere poichè, conoscendo egli la morte, può desiderare di morire per sottrarsi alle fatiche che l'appartenenza alla vita (collettiva ed individuale) impone. La specie sembra sempre più legata all'esistere ed il conflitto esistenziale non pare intaccarla anche se ultimamente si ipotizzano suicidi collettivi di mammiferi superiori (balene, delfini, ecc.). Ecco perchè per l'essere umano, esposto tanto più violentemente al rischio necessario del disinvestimento dall'esistere quanto più fa coscienza, la comunità è un fattore importantissimo per la gestione del surplus energetico che la coscienza produce e che non può essere trattenuto nel singolo pena l'esserne distrutto come da gas venefico. Il singolo non può sopportare più di tanto il peso della responsabilità della conoscenza e dell'esistere. Ha bisogno di liberarsene competendo a lui come singolo la pura ed essenziale consapevolezza.
Siamo ad un punto di rottura per cui da un lato non reggiamo più col solo ausilio della coscienza e della ragione l'insostenibile pesantezza dell'esistere mentre dall'altro lato percepiamo ed intuiamo la prossima insostenibile leggerezza dell'essere.
Tornando alla nevrosi ossessiva, essa svela un funzionamento antico che non ha prodotto nè produce nel singolo ciò che nella maggioranza dei suoi simili, con il rito, ha prodotto e produce.
 
Il rito e l'interlocutore universale
 

E quello che il meccanismo del rito produce mentalmente è per l’appunto l'apertura di uno spazio di rappresentazione interiore, mentale per l’appunto. Il rito nel suo versante magico e religioso, con il sacro, con il rituale e con il simbolo, sono stati gli strumenti con cui il pensiero ha imparato a riconoscere se stesso e a dirsi Soggetto.
Il rituale persiste perchè persiste la dialettica tra singolo e gruppo, tra finitudine individuale e totalità, tra ragione e follia, tra norma e caos ma esso sembra aver perso, in grandissima parte, la relazione con il sacro, con il simbolo, con il rituale sensato. A parte alcune esperienze critiche della vita che persistono e svelano ancora questo collegamento ed identità con il sacro, con il religioso (si pensi ai riti funerari, ai riti religiosi in senso stretto), gli altri rituali in cui siamo immersi paiono caratterizzarsi dalla loro inefficienza a garantire ciò per cui vengono reiterati: la trasformazione per fede condivisa. Essi scadono dunque alla categoria negativa del ritualismo.
Esempio eclatante e detto, così, per inciso : la pubblicità commerciale che ti garantisce l'appartenenza sociale se indossi i jeans o se bevi coca-cola! I jeans sono l'unica insegna che ha unito l'umanità e l'ha omologata realmente più delle idelogie, delle bandiere, degli sport e delle religioni. Ma ciò è solo esteriormente. Essa mostra quanto l'interlocutore sociale, universale, trascendente ad un tempo si sia svilito lasciando in misera solitudine il singolo. Il Grande Fratello non può in alcun modo costituire il partner adatto per la grande interlocuzione di cui ha bisogno ogni singolo soggetto per sentirsi autenticamente affratellato ai suoi simili particolarmente nei momenti esistenziali più significativi.
Io credo che il rituale, pure in crisi nel versante della religione, nel suo lato interiore come funzione psichica e collettiva produttrice di mondi spirituali, non potrà venire meno per tutto questo ciclo cosmico; credo invece che esso venga spesso soffocato dal ritualismo così come il santcus soffoca il sacer, così come il concretismo soffoca il concreto, come la lettera soffoca lo spirito, così come il segno soffoca il simbolo, ...ecc.ecc.ecc.
Riattualizziamo la riflessione sulla nevrosi ossessiva perchè essa segnala fino al parossismo a mio avviso una dinamica sempre più generale. E' come se essa rispecchiasse cosa sono diventati i rituali sociali individualmente perseguiti: degli aborti di se stessi, fallimenti nella ricerca di senso, la denuncia del Grande Assente, il Gruppo sociale come Padre e Madre insieme: E forse anche come Figlio da curare.

Il superamento del rito nell'ignoranza secondaria e nel sapere
 

Credo che in questa particolare condizione si nasconda al solito un movimento dialettico potenzialmente evolutivo: il movimento dialettico tra coscienzialità e a-coscienzialità. La coscienza è il dominio della tensione, della mediazione e della gestione dell'ansia che segna il passaggio da uno stato di ricerca ad uno stato di sapere. Nell'ignoranza secondaria e nella consapevolezza viviamo e siamo il simbolo. Sappiamo immediatamente e non abbiamo bisogno di riti. Nell'esercizio della coscienza il rito si ripresenta nella sua necessità.
La coscienza tendenzialmente potrebbe andare in pensione come luogo in cui abitare la nostra identità e con la coscienza, il rituale, la metafora, il simbolo e tutto quanto rimanda ad un altrove
. Abiteremmo il simbolo, saremmo il simbolo e potremmo riporre la nostra identità nella essenza del mondo. Il passaggio sarebbe questo: lasciare il guscio che ci conteneva per essere finalmente la cosa dentro il guscio, la vita. Sarebbe una vera partenogenesi, il nuovo big-bang dello spirito. Movimento epocale che accadrebbe con la stessa potenza con cui l'essere è esploso nella materia. Esplodere nello spirito significa passare dalla mediazione all'immediatezza nella consapevolezza unica e totale. Significa non abitare più nel dominio della coscienza ma nel dominio della consapevolezza.
Se abbiamo detto che i nostri progenitori hanno scoperto o inventato il rito in ciò aprendo la strada allo spazio mentale del Soggetto, oggi, che in noi il Soggetto esiste, non possiamo più mantenere con il rito e con il rituale quell'atteggiamento che fu fin qui funzionale. Abbiamo scoperto l'ennesima buona menzogna e siamo dunque un po' più nudi. Sappiamo strumenti e finalità del rito: l'individuazione del gruppo (dell'universale, del concetto, della gestalt) a spese del singolo e l'individuazione del singolo (della differenziazione, del particolare, della novità) a spese del gruppo. Si pensi alla regola gestaltica che gestisce il rapporto figura/sfondo.
Con buona pace di Freud e nonostante la metafora economicistica sopra citata, non credo si possa parlare di conflitto di interessi tra singolo e società giacchè l'uno non è senza l'altro. Sono entrambi momenti di una dialettica che entrambi li comprende e se fin qui è stato funzionale porre l'accento sulla contrapposizione proprio come è stato funzionale sfruttare la struttura primordiale paranoica, oggi, che il Soggetto può sapere di sè nel singolo e nel gruppo, che ha recuperato un pensiero ed una consapevolezza universale, non pare più lecito mantenere le opposizioni.
Ma se l'opposizione viene meno, viene meno il principio e la ragion d'essere del rito: esso è sempre partigiano perchè garantisce l'appartenenza a in ciò sancendo l'esclusione da.
Porto due sogni a tale proposito.
Uno di parecchi anni fa:
La sognatrice con un'amica e compagna di ricerca e con altre donne fanno da vivandiere ai loro compagni e ad altri uomini che insieme stanno sparando al nemico appostato al di là della strada in rifugi di fortuna. Accade che le donne comincino a scambiare dolci sguardi con il nemico tanto che finiscono con il lasciare i loro compagni per andare a far l'amore con il nemico (gli uomini al di là della strada) in un luogo lontano mentre i loro compagni, ignari di tutto continuano a sparare verso un nemico ormai assente.
La sognatrice con il suo ex marito e ancora attuale compagno di ricerca nel laboratorio che insieme frequentano hanno appuntamento con gli altri del gruppo in alta montagna per assistere alla proiezione di una videocassetta. Giungono però in ritardo ed ella ne è rattristata mentre l'uomo va a prendersi il sole. Ella si ritrova da sola in mezzo ad una guerra sconosciuta tra divise che non riconosce. Viene affiliata da una delle parti in guerra che le molla uno zaino in spalle e che ella dovrebbe portare al di là delle linee nemiche. La sognatrice è stanca e pur di non partecipare a guerre si getta dai tremila metri di altezza a cui si trova nel mare sottostante stupendo e trasparente sapendo che non la ucciderà. In effetti ella si butta affidandosi e riaffiora in tempo per vedere in prossimità della costa le navi dello sbarco in Normandia e i documenti lasciare lo zaino e insieme all'inchiostro spargersi nel mare. La sognatrice giunge infine ad un isola deserta di guerra nel senso che nessuno sull'isola sa della guerra sicchè non essendovene il concetto la guerra semplicemente non c'è. Solo la sognatrice sa ma sa anche che non vuole portare sull'isola il pensiero della guerra e quella resterà l'isola della guerra che non c'è.

Se quell'isola rappresenta un nucleo importante della personalità totale della sognatrice, essa sarà capace di contagiare l'arcipelago della personalità, ovvero tutti gli altri nuclei. E se questo vale per la persona della sognatrice, lo stesso può valere sul piano sociale. L'invito dell'inconscio potrebbe essere proprio quello di non investire più sul concetto dell'altro come nemico o dell'altro come mancanza. E se non c'è nemico nè mancanza non c'è più il mondo della necessità.
Se il movimento che l'inconscio denuncia è vero il soggetto può allora scegliere:
- di cogliere la nuova libertà e la nuova responsabilità (responsabilità di reggere uno stato esistenziale di maggiore quiete e di maggiore gioco, perchè se lo stato di necessità dilegua, dalle sue ceneri nasce lo stato ludico e torna l'immagine allegorica della nudità infantile nonchè l'autenticità e la serietà, nell'indossare i ruoli, tipiche del bambino);
- di negare e rimuovere la propria soggettività presente (quella che il rito era chiamato a costruire) e, proprio come nella modalità nevrotica-ossessiva, essere una sorta di motore che gira a vuoto in un mondo fantasmaticamente paranoico.

Numinosità e sessualità
 

Vorrei aggiungere una cosa che trovo interessante a proposito del rito: quanto sopra detto circa il rapporto dialettico tra individuo e gruppo, non vale solo per il lato numinoso della libido che produce il sacro come astrazione necessaria e trascendimento proteso ad edificare l'unità del branco, ma anche per l'altro lato numinoso della libido, il lato ctonio, quello che Freud analizzò: l'aspetto sessuale. Il ritualismo svuotato di senso è leggibile anche come uno scacco subito dalla sessualità perduta quale via sacra per l'immortalità e per l'appartenenza imperitura al branco: non accedervi equivale all'annientamento in vita che solo tentando la via religiosa del ritualismo può essere sventato: nel ritualismo si ripulisce l'anima da qualcosa che sporco non è. Non è dal senso di colpa o di sporco che l'ossessivo deve ripulirsi quanto dalla sua mancata partecipazione al rito della riproduzione che concause più particolari gli impediscono (cause familiari, rapporti parentali ecc.). Sto qui avanzando l'ipotesi che il singolo che si segna cento volte o che si lava mille al giorno non ha paura della sessualità animale ma del lato numinoso e bestemmiato (evitato) della sessualità stessa come via al sacro (all'unione, alla vita, all'immortalità).
 
Raccolta di microrituali
 

Presenterò un elenco di microrituali citati alla rinfusa e per i quali produco la mia possibile lettura: credo che, come per la nevrosi ossessiva, essi rappresentino la ricerca fallace dell'interlocutore simbolico e reale come interlocutore sociale (universale concreto). Anzi, essi esprimono il bisogno di concretizzare il Soggetto che, interiormente percependosi nel singolo, vuole toccarsi con mano, ovvero esprimersi sensibilmente, esteriormente nel Gruppo. Solo in questo modo, nel singolo e nel gruppo, nell'interno come nell'esterno, la Soggettività si farebbe davvero reale.
Chi oggi ritualizza in sintonia col tempo evolutivo, cerca in realtà l'interlocutore trascendente ( dio, senso, totalità, eden, madre, padre ecc.) con il quale tradire il rapporto gerarchico ed edipico a favore dell'intersoggettività piena. La differenza possibile dei significati possibili sta ovviamente nella configurazione psichica di cui è portatore il ritualizzante:
- essa può posizionarsi a stati arcaici laddove la salvezza era intuita nel rito ma con molta inconscietà e indifferenziazione;
-oppure può posizionarsi all'ultimo e attuale presente in cui essa, forte della consapevolezza raggiunta dopo tanto esilio e solitudine interiore, rivuole il testimone concreto e trascendente: la comunità. L'esistenza più evoluta e spirituale del Gruppo viene come evocata dal singolo. Egli sa che il gruppo come soggetto pubblico e ufficiale si è fatto universale e concreto nel suo lato sanctus e canonico, nel sancito, nella legge che lo ha portato a farsi addirittura Stato o Chiesa, ma non lo sente più come potenza alleata e rassicurante e materna e numinosa e ctonia. E' solo spirituale di una spiritualità astratta e tutt'uno con la legge. Il singolo che, non appartenendo ai grandi nevrotici ossessivi, come la sottoscritta, pure registra il suo districarsi tra tanti piccoli ritualismi, forse cerca di soddisfare quel bisogno di contatto energetico ed erotico e materno che non la legge, l'istituzione, il gruppo triangolarizzato del rituale: officiante, corpo ecumenico, oggetto intermediario, più permettono, bensì una sorta di autorisveglio del gruppo come tale, che è come dire evocazione consapevole delle forze che in esso giacciono e che sono tutt'uno con quel numinoso che oggi, forse, si può avvicinare con più rispetto e con più consapevolezza perchè abbiamo imparato a riconoscerlo già dentro di noi. Se diciamo di poterci affidare al caos da cui nasce il pensiero e ogni creatività, perchè mai non dovremmo affidarci al gruppo in esso fondendoci e alienandoci? I nostri rituali in realtà segnalano il nostro bisogno di vera interlocuzione senza forme giuridiche, senza maschere e senza scenografie che non siano trucchi immediatamente esplicitati e condivisi per non spaventare l'anima del mondo l'anima del gruppo e l'anima personale. Quello che vorremmo restasse del rito è una pura scena teatrale senza la scissione che il vero e antico rito porta con sè.
Divertiamoci ora ad elencare un po' di rituali:
- Il disegnare sulle mani;
- camminare sulle righe che formano i mattoni della crëuza (selciati dei tipici viottoli liguri) o del marciapiede;
- calcolo mentale per decidere, strada facendo, di sfruttare il percorso già finalizzato a qualche cosa: farci entrare il più elevato numero di operazioni utili. L'esempio è riferito a lavori casalinghi ma anche ad altro;
- movimenti con le gambe in corrispondenza delle gambe del tavolino;
-rigidità nel rapporto con lo spazio cittadino (sempre gli stessi percorsi);
- spogliarsi appena varcata la soglia di casa di tutto ciò che imprigiona parti del corpo come le dita e i polsi e le scarpe (anelli, orecchini, orologi, scarpe, ecc.);
- lavarsi tante volte le mani;
- la fobia dello sporco (rupofobia);
- schiavitù dai promemoria volanti "sistematicamente" dimenticati;
- lasciare a vista sul tavolo (tanto tratteremo di lì a subito la cosa!) fogli e bollette da pagare;
- giocherellare con gli anelli, con l'orologio;
- infilarsi le mani nei capelli e arrotolarsi le dita (tricotillomania);
- dividere per tre la somma delle cifre delle targhe d'auto;
- canticchiare coattivamente una canzonetta con cui ci si sveglia per tutto il giorno;
- alzarsi da tavolo o da letto pur certi di aver fatto tutto quanto ci rende liberi dal doverlo fare (aver preso tutto il necessario, aver spento il riscaldamento ecc.);
- farsi il segno della croce a sera con il gusto un po' coatto dei bambini;
- incapacità di buttare via i contenitori vuoti (vasi vetro ecc.) o le medicine anche se sono scadute;
ecc. ecc.
Potremmo perderci nelle riflessioni sulla relazione ordine ed integrità a cui tali micro-riti, quando siano tali, rimandano. Potremmo anche analizzare i conflitti relazionali nella coppia come conflitti tra microriti sfasati o incompatibili. Non sono totalmente false quelle motivazioni al divorzio legate a modi diversi di intendere la giusta sistemazione dello spazzolino da denti e cose del genere! Potremmo anche soffermarci su quei rituali relazionali così ben eseguiti per conservare un sano sistema di comunicazione disturbata e disturbante. Un esempio per tutti: insistere nel parlarsi da una stanza all'altra ben consci di non sentirsi e di costringersi così alla ripetizione e all'irritazione. Ma sarebbe davvero un modo poco analitico di procedere perchè ci faremmo eccessivamente catturare dal "segnale", dal sintomo che, in quanto tale, rimanderebbe ad altro. Saremmo costretti a parlare di altro ed io invece vorrei restare nel discorso seppur ad ampio raggio dei riti e dintorni.
 
Categorie di rituali
 

Dall'elenco e dalle considerazioni indiscriminate proviamo ora a categorizzare i rituali. Osserviamo che essi possono essere distinti in:
- rituali iniziatici dello stato (che aprono il contratto e la nuova relazione. Es. La prima comunione, il battesimo, la cresima, la laurea, ecc.);
- rituali conservativi e confermativi dello stato (almeno ogni tanto per lo scienziato pubblicare i suoi studi, partecipare ai convegni, ecc.; la comunione e la confessione ogni tanto per i credenti cattolici, ecc.);
Entro questi due aspetti del rituale siamo nella identità tra contenuto del rito (contratto reale) e quanto il rituale esprime.
- rituali dimostrativi dello stato che esprimono a) segni veri (partecipazioni a conclavi, convegni, congressi, ritiri, summit ecc.) ostentazione delle insegne reali di appartenenza, cravatte reggimentali degli inglesi che ha dei colori ben precisi, la sciarpa della Sampdoria, le coccarde, il cappello degli alpini, la porche del ricco) e b) segni falsi o copiati (es. il falso ingegnere con la falsa laurea appesa, il rolex comprato a rate o finto, la porche a rate per dimostrare uno stato sociale superiore a quello reale. In generale questo ha a che fare con il commercio di tutti i simboli di status, kajal e silicone compresi!).
- Rituali compensatori di stato che possiamo ipotizzare:
1) come un tentativo di risposta ad una mancanza di appartenenza;
2) come desiderio di espiare il peccato della sessualità respinta deviato nel contrario: necessità di candore e ordine e pulizia inarrivabili (piaghe ed espiazione, in esso anche i pensieri ossessivi aggressivi, ecc.);
3) come costo psichico per una mutazione coscienziale in atto che in quanto tale porta l'individuo a sentirsi soggettivamente fuori dal sacro mandala comune ai suoi simili.
In questa categoria annoveriamo i microrituali quotidiani, argomento che abbiamo utilizzato come pretesto per dire tutto quello che abbiamo detto. Essi sono criptici ed inconsci ed apparentemente autodiretti.
Se i primi tre tipi di rituali (iniziatici, conservatori e dimostrativi) sono accomunati dal messaggio che essi vogliono rivolgere all'esterno, i microrituali compensatori sono caratterizzati dal fatto che attraverso di essi il soggetto si rivolge direttamente a se stesso (o all'arcipelago di organi interni e di sottopersonalità inconsce che lo costituiscono) nella prima ipotesi per millantarsi qualcosa o qualcuno che non è, nella seconda ipotesi per espiare il peccato della mancata sessualità e ristabilire una innocenza primaria con cui il soggetto vorrebbe tornare in braccio al branco (o a dio, è lo stesso. Movimento di apparente regressione); nella terza ipotesi affinchè possa consapevolizzarsi della paura che la mutazione della specie a cui è impegnato può ancora comportare nelle stratificazioni più antiche e profonde del suo essere, dunque del corpo stesso che con certi automatismi, quasi onanismi, quasi atteggiamenti psicotici, cerca una sorta di soporifera e ipnotica quiete. Quest’ultima condizione prevede anche la lettura opposta: il "mantra" ipnotico come fattore facilitante la riflessione nell’estraneamento da tutto il resto.
Ho chiamato in causa anche il corpo perchè il microrituale non si ferma solo al nostro comportamento più o meno compulsivo: esso sa riproporre se stesso in modo ancora più nascosto e subdolo fin dentro il corpo attivando il secernimento di certi acidi che producono ulcere e simili, oppure attaccando con delle strategie assolutamente misteriose la pelle ecc.. Sarebbe interessante indagare alla luce di queste ipotesi il significato di questi rituali autodistruttivi ed inconsci. Se poi seguiamo la nostra idea secondo cui siamo fatti come un arcipelago con tante sottopersonalità sottomesse all'Io centrale, possiamo immaginare che anche il nostro corpo sia fatto di tanti sotto sistemi ciascuno dei quali può avviare dei riti e dei rituali in contrasto con quelli di altri sottosistemi...
Queste due ultime categorie, quella dei rituali dimostrativi e quella dei rituali compensatori, sono quelle entro cui s'insinua più facilmente la modalità patologica, compresa quella più frequente per i quali ci vuole una sorta di microanalisi trattandosi di microrituali tutto sommato deboli e quasi innocui.
 
Conclusione
 

La mia ipotesi è che la raffinatezza e la ricchezza del rito e del rituale stiano indebolendosi e vorrei soffermarmi sui due lati dialettici di questo indebolimento:
- il lato per cui tale indebolimento è negativo: manca il sociale, manca un contesto in cui si faccia spirito. Manca il branco inteso come simili realmente necessari. Agli uomini mancano gli uomini!!!
- il lato per cui tale indebolimento è positivo: il soggetto consapevole della sua sostanza pensante e senziente quale sostanza universale non cerca nè trova fondamento alla sua identità nè nella classe sociale, nè nella culturale, nè in quella geografica, nè in quella razziale, nè in quella mondiale umana. Avanti a lui i singoli riti, che aggregano solo diversificando il singolo e il suo gruppo dagli altri appartenenti ad altri gruppi (un militare di un paese che fa la guerra al militare di un altro paese, il cristiano che non entra nella moschea islamica, ecc.) non reggono più la loro autorevolezza perchè non veicolano più senso.
Al di là delle linee di tendenza che vedono i riti esteriori ridursi quanto più si fa ricca la vita interiore, non è difficile comprendere come la nostra scelta di restare con gli altri e di non fare gli eremiti dimostri il nostro bisogno di appartenenza, di alienazione e di normalità sicchè un minimo di rito e di ritualità permangono.
Se il rituale è degna metafora e noi sappiamo di non riporci la nostra identità, se sappiamo dunque di non incorrere nell'errore di pensarlo immediatamente la realtà, tanto ci deve bastare a non farci soffrire di claustrofobia spirituale perchè ci viene offerta, a questo livello di consapevolezza, la libertà di leggere e vivere l'interno delle cose liberi e liberati noi stessi dal nostro io, ovvero dai pregiudizii sulle scorze e sui vestiti che i copioni della vita, a loro volta frutto dei riti, impongono. L'accettazione consapevole e totale del rituale, quando ve ne sia necessità, coincide con il suo totale svuotamento: resta l'essenza dell'esperienza in qualsiasi ritualità essa si manifesti.
Anche questa conferenza non sfugge al cerimoniale e si presenta sia pure blandamente con gli aspetti di un rituale. Io come officiante, voi come corpo ecumenico, la mia relazione come liturgia e tutti fiduciosi che si compia il rito dell'illuminazione e folgorati, come Paolo sulla via di Damasco, si torni a casa tutti più buoni e risplendenti!

Ada Cortese


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