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N° 08 Agnese Galotti

Agnese Galotti

 CONFERENZE 

IL FASCINO DELLA SCHIAVITÙ

Il lato ombroso del femminile.

Sia il termine "schiavitù" (essere privo di libertà, soggetto a qualcuno o qualcosa - passioni, consuetudini, vizi - cui si appartiene come una cosa) , sia il termine "fascino" (incantesimo, malìa che sopraffà il giudizio e riduce od esaurisce la padronanza di sè) , rimandano al medesimo concetto di "perdita di libertà", all’impossibilità di riconoscere in sè alcun potere, al "farsi oggetto" passivo, in balìa di un soggetto altro.
Sottolineo l’aspetto attivo del "farsi passivo", che presuppone una "scelta" o comunque un’adesione da parte del soggetto, visto che affrontiamo l’argomento in termini di "dinamica psicologica", in cui appunto accade il "farsi schiavi", il lasciarsi sopraffare da qualcuno o qualcosa in virtù di istanze non del tutto chiare e perlopiù inconsce.
Cerchiamo di delineare il contesto in cui intendiamo muoverci: Jung definisce la psiche come "una totalità che è conscia e inconscia al tempo stesso", nella quale non è mai completamente distinto ciò che è cosciente da ciò che non lo è. A tal proposito Jung accenna al paradosso secondo cui esisterebbero una "coscienza inconscia", da un lato, e un "inconscio cosciente" dall’altro.
Egli sottolinea quindi la relatività della coscienza, che non è semplicemente "una coscienza, ma tutta una scala di intensità di coscienza".
"Tra io faccio - dice ad esempio Jung - e "io sono consapevole di ciò che faccio", esiste una differenza abissale, non solo, ma a volte addirittura una vera e propria antitesi.
Già questo dovrebbe metterci in guardia da un' eccessiva sicurezza da parte dell’Io cosciente.
Inoltre "la psiche - spiega ancora Jung - è delimitata verso il basso dall’istinto, quindi da quella sfera in cui vige l’obbligatorietà e coercizione del livello più primitivo, quello organico-vegetativo, e verso l’alto dallo spirito, quale forma più elevata della medesima energia." La psiche è per eccellenza l’ambito in cui agisce la "volontà", intesa come "somma limitata di energia di cui la coscienza può disporre liberamente", il che implica, per definizione, una certa "libertà di scelta".
Quindi la psiche è la sfera di applicazione della volontà, la quale, peraltro, da un lato non è in grado di costringere l’istinto e dall’altro non ha potere sullo spirito, e richiede inoltre una certa consapevolezza.
Quindi non solo la coscienza è - come si è detto - tanto relativa, ma anche la volontà risulta esserlo altrettanto; inoltre la volontà non è totalmente cosciente. Ciò significa che noi possiamo essere spinti, nel nostro agire, da una volontà anche molto potente, che agisce sotto un’istanza inconscia.
Da qui la necessità di renderci progressivamente sempre più consapevoli della volontà che determina il nostro comportamento.
A questo proposito c’è un sogno particolarmente esplicativo:

> La sognatrice diceva ad una sua analizzanda, partecipante al gruppo d’analisi, la quale tergiversava nel lavoro occupando la mente in pensieri di poca importanza, che esiste un livello di energia altrettanto reale quanto quello che tocchiamo con mano, in cui ciò che desideriamo si avvera.
Dunque la invitava a stare molto attenta a quali sono le cose che la sua mente desidera.<

La prima situazione che viene da associare al binomio "fascino" - "schiavitù" è la rimozione o perdita della soggettività, stato in cui viene ad eclissarsi la nostra consapevolezza di essere e, di conseguenza, viene a prodursi una visione riduttiva di sè come individualità, ed una percezione limitata delle proprie potenzialità e risorse, oltre che della volontà cosciente.
E’ una sorta di percezione amplificata di "impotenza".
Ora, ciò che su un piano più elevato quale è quello spirituale, avrebbe un senso affermativo, in virtù del fatto che ci si apre alla dimensione universale dell’essere accanto a quella particolare, su un piano più strettamente psicologico questa riduttività ha qualcosa di stonato.
Mentre sul piano spirituale infatti il soggetto sperimenta l’esistenza del Sè, alla cui presenza l’Io è davvero relativizzato e percepito come limitato nella sua potenza, per cui si fa reale ciò che all’Io parrebbe paradossale, e cioè la coesistenza degli opposti, per cui libertà è tutt’uno con necessità, su un piano meramente psicologico questa schiavitù, accettata come inevitabile, suona invece come una rinuncia prematura ad una libertà che deve prima essere incontrata fino in fondo, con i suoi aspetti esaltanti e con tutta la fatica e la sofferenza che essa comporta, per poter essere, in un secondo tempo, davvero trascesa.
E’ a questo livello infatti che può risultare pregna di "fascino" la non libertà, in termini che ci fanno pensare ad un pericolo per l’Io stesso.
Razionalmente sembra impossibile pensare che una condizione come la schiavitù, la non-libertà, possa costituire un’attrazione tanto forte: pensiamo in genere alla libertà come al bene maggiore da perseguire e da difendere.
Eppure basta pensare all’innamoramento per rendersi conto di quanto piacevole possa essere il sentirsi totalmente catturati apparentemente dall’altro, in realtà da una forza, un sentimento, un’emozione intensissima, che ci possiede totalmente.
Ma l’innamoramento è la condizione di "fascinazione" in cui appare più evidente l’aspetto esaltante: c’è comunque - al di là della corrispondenza o meno da parte dell’altro - una tale attivazione generale, che amplifica il "sentire" a tutti i livelli, generando quei sommovimenti interni che ci fanno sentire profondamente vivi.
E’ per questo che ci sono persone che si innamorano in continuazione, come non volessero mai uscire da quel modo di percepire la vita. Infatti, finchè non succede l’invitabile decantamento, piuttosto che la ripida caduta nella depressione, c’è almeno una fase, nell’innamoramento, in cui è esaltato l’amore stesso per la vita.
Esistono invece una serie di situazioni di "schiavitù" in cui risulta ben più difficile cogliere l’aspetto affascinante, l’appagamento - che pure a qualche livello c’è sempre - che impedisce al soggetto fattosi schiavo, di riscattarsi dalla sua degradante condizione per liberarsi, cosa da cui, sotto certi aspetti, sembra invece difendersi con tutte le forze.
Penso a certe dinamiche presenti in vari ambienti di lavoro, in cui vige una situazione di pesantezza nei rapporti che a tutti appare come eterna ed immutabile, in cui colui che si vive come "schiavo" di un determinato "padrone" arriva ad identificarsi a tal punto con il proprio ruolo, da non riuscire più a vivere se non si sente almeno un pochino vessato ingiustamente.
Ed ogni volta che ci si identifica con un ruolo, qualunque esso sia, si è già rinunciato alla propria soggettività, alla propria integrità.
E l’identificazione con il ruolo della vittima, secondo una sorta di "morale convenzionale", fa leva su un tasto, quello della pena, dell’autocommiserazione, che evidentemente appaga molto, a giudicare da quanto è dilagante.
In certi casi agisce, soprattutto quando è marcato l’aspetto di obbedienza servile, una sorta di "moralismo di convenienza", che vede nel "potere" qualcosa di negativo, di diabolico, da rifuggire come pericoloso.
Per cui non resta che delegare sempre a qualcun altro il potere e quindi anche la responsabilità di come vanno le cose - che generalmente poi continuano ad andare male - anzi, diventa addirittura necessario continuare a subire ingiustizie e negatività a conferma di quanto si crede.
L’unica libertà che non viene mai intaccata resta quella del mugugno, della lamentela ad oltranza, lungi dal prendere atto di quanto proprio tale atteggiamento continui ad alimentare la situazione stessa.
Questo è l’atteggiamento anti-analitico per eccellenza: in piena proiezione e scissione tra sè e l’altro.
E qui comincia ad apparire con più evidenza il vero nodo del problema: la tendenza a deresponsabilizzarsi: finchè c’è una causa esterna, qualcun altro - il nemico - che impedisce la mia libertà, posso continuare ad idealizzarla, evitando di farci i conti realmente.
Il "farsi schiavi", in qualsiasi forma esso avvenga, è un modo d’esistenza che garantisce dal farsi carico della propria libertà e quindi della responsabilità del nostro essere al mondo.
Propongo dunque di leggere l’atto del "farsi schiavi" come una "scelta volontaria" che una parte di noi opera, per lo più inconsapevolmente, al fine di raggiungere un’alleviamento della propria responsabilità di soggetto.
Vorrei focalizzare in particolare due ambiti della vita quotidiana in cui questo meccanismo si impone: - la relazione affettiva in forma di dipendenza reciproca; - il rapporto col proprio sintomo nevrotico.
Nel rapporto affettivo, nella coppia in particolare, è spesso individuabile un meccanismo perverso e pericoloso per cui si tende a "farsi schiavi" del rapporto come fosse cosa irrinunciabile, come se la propria identità consistesse in primo luogo nell’essere in coppia con qualcun altro.
Non è necessario arrivare a relazioni fortemente patologiche - che pure esistono - in cui accade che uno dei due si sottomette a tutti gli effetti ai voleri, quindi ai capricci patologici dell’altro, delegandogli pieno potere sulla propria vita, e arrivando a svilire se stessi e la propria dignità - atteggiamento, questo, tipicamente femminile avallato per secoli da una morale patriarcale.
E’ sufficiente riflettere sulla mancanza di libertà psicologica molto più sottile in cui ci si viene a trovare ogni volta che non si accetta di fare i conti con la propria più profonda solitudine.
Penso alla fuga dalla solitudine di chi passa ossessivamente da un rapporto all’altro senza concedersi tregua, o all’impossibilità di pensare a sè come singolo individuo quando si è in coppia da diverso tempo.
Allora l’altro, la coppia, la famiglia, tutto il mondo degli affetti, può diventare un alibi - nobilissimo! - per non sentirsi realmente profondamente liberi e dunque soli, a render conto a se stessi della propria vita.
In effetti un conto è stare in un rapporto con quella coercizione che è tipica però solo della fase di innamoramento, e come tale - per fortuna - temporanea, un altro conto è starci quando si sia potuto realizzare profondamente che è possibile anche vivere senza l’altro, che quel rapporto, per quanto importante, non è essenziale all’esistenza: da qui nasce la possibilità di sentirsi liberi e quindi di amare.
Paradossalmente si considera spesso come "amore" il non poter fare a meno dell’altro, e quindi si cerca subdolamente di fare in modo che l’altro non possa fare a meno di noi, mentre, a ben pensarci, l’amore prevede la libertà di due soggetti interi che scelgono liberamente di condividere alcuni aspetti della vita, e non la schiavitù di due dipendenze che si incastrano e si fondono in un tutto indifferenziato.
Quest’ultima situazione fa pensare alla tipica fusionalità del rapporto madre-figlio, che si ripropone così spesso nel rapporto di coppia.
Spesso allora ci si "assoggetta" all’altro senza più distinguere quale bisogno ciò vada a colmare.
Se ci chiedessimo sinceramente questo, ogni volta che ci troviamo coinvolti in un rapporto affettivo significativo, potremmo scoprire cose assai interessanti: sicuramente cadrebbero molte "nobili motivazioni".
Non a caso nel lavoro d’analisi si presta una particolare attenzione a quello che è di volta in volta il proprio modo di amare, quale spia della reale trasformazione in corso, mentre si fa sempre più chiaro come sia un "falso problema" il non essere amati.
Quando si riesce a realizzare fino in fondo - e deve diventare non solo "convinzione" ma proprio "carne" - che la relazione d’amore con l’altro richiede in primo luogo il recupero della propria soggettività, l’affrancamento dalla reciproca schiavitù-dipendenza, e il contatto costante di ciascuno con la propria solitudine profondissima, con la propria dimensione di soggetto individuale, allora soltanto possono saltare tutti gli alibi e le "nobili coperture" alla nostra fuga da noi stessi.
Allora soltanto si può conoscere il nuovo bisogno di rapporto, libero dagli aspetti di incantesimo e schiavitù: un bisogno più "pulito" e dignitoso.
Possiamo così ben vedere come la sfera degli affetti costituisca, il più delle volte, la principale riserva al lavoro di conoscenza di sè.
E’ qualcosa cui restiamo attaccati, che resistiamo dal "vedere" con lucidità per timore di constatare qualcosa che pure già intuiamo: la presenza di quella colla affettiva come principale movente, il tenersi caldo, il ripararsi vicendevolmente dalla consapevolezza delle proprie ombre, l’offrirsi all’altro di volta in volta, quale nemico-aguzzino che richiede l’agognato assoggettamento o quale schiavo desideroso di sottomettersi agli altrui voleri.
Tutto ciò evidentemente non ha nulla a che fare con l’amore, e molto invece con la scelta di "schiavitù".
C’è un sogno che parla chiaro sulla incompatibilità tra "colla-affettiva" e amore come conoscenza:

> Veniva a GEA Silvia Montefoschi, e per prima cosa ci ordinava di togliere tutti i termosifoni che c’erano in giro.<

Un altro "nobile alibi" è costituito dal cosiddetto altruismo: spesso rinunciamo alla nostra libertà - o non la recuperiamo a pieno - mascherando la vigliaccheria dietro un aspetto di generosità.
E’ quando ci convinciamo di farlo "per l’altro".
Penso, per restare nell’ambito della coppia, a tutte le persone che, intrapreso un cammino di conoscenza, si trovano, prima o poi, a mettere in discussione il "rapporto privilegiato", nel momento in cui possono vedere con chiarezza e distinguere quanto vi sia in esso di reale amore e quanto invece agisca il "fascino della schiavitù".
Non si tratta certo di un passaggio facile nè indolore: subentrano vissuti di confusione, insicurezza, fantasie di morte e di abbandono che tutti, in genere, cerchiamo di evitare.
Uno degli escamotage che allevia apparentemente la sofferenza - ma che in realtà pregiudica la stessa validità del lavoro di autoconoscenza svolto fin lì - è quello di non andare fino in fondo, di limitare cioè il recupero della propria libertà e dignità, con tutto ciò che questo comporta, dandosi come motivazione il "farlo per l’altro", per non farlo soffrire, per salvare il rapporto, perchè l’altro non reggerebbe ...
Sono le situazioni in cui, pur essendo magari anche giovani, alle prese con le scelte più importanti della vita, si sceglie in funzione della presunta bisognosità dell’altro.
Ciò che appaga, in questo tipo di dinamica, è senz’altro il vissuto di "essere indispensabile" all’altro, tipico del nocivo ed invischiante gioco di potere che chiamiamo maternage, inteso come tipo di rapporto in cui si ha bisogno della bisognosità dell’altro, nel disconoscimento totale delle risorse proprie ed altrui.
Senza contare che l’altruismo, come dice la parola stessa, è atteggiamento che riconferma la separazione tra sè e l’altro come totalmente altro, dunque alimenta la scissione, la differenza, la frantumazione.
Infatti solo quando ci si affaccia al livello universale dell’Essere è possibile superare tale equivoco e cogliere come ciò che è profondamente benefico per sè non può che esserlo realmente anche per l’altro, nonostante l’apparenza immediata: tutto ciò che lavora per liberare l’essere dall’oggettualità, per aumentarne la consapevolezza non può che muovere energie in quella direzione.
Ma per arrivare a percepire con chiarezza questo, bisogna aver riconosciuto in sè quella regalità e dignità profonda che consente un atto di libertà fondamentale: l’affrancamento dal farsi schiavi del conformismo.
La schiavitù - recita il dizionario - può essere anche da consuetudini e vizi: possiamo cioè farci schiavi del "senso comune", della mentalità dominante, della convenzione vigente nell’ambiente sociale in cui ci troviamo: lì, al di là della moralità più o meno valida di tale atteggiamento, accade che si rinunci alla propria dignità di esseri pensanti in cambio della rassicurazione che l’appartenenza al branco ci restituisce.
Anche in questa situazione agisce la colla affettiva di cui si diceva per la coppia.
Sul piano intrapsichico una delle schiavitù che spesso domina è quella dal sintomo nevrotico che ci affligge.
Jung, parlando dei complessi a tonalità affettiva quali aspetti della personalità interiore caratterizzati in senso vivacemente emotivo, che, costellandosi, influenzano il comportamento in senso spesso incompatibile con l’atteggiamento della coscienza, ne mette in evidenza il potere di possedere il soggetto al di là della sua volontà cosciente.
Essi ci inducono "in uno stato di illibertà di coazione del pensiero e dell’azione" tanto da limitare non solo la capacità di volere ma anche quella di intendere.
A questo livello si incontrano talvolta dei meccanismi psichici assolutamente resistenti come la coazione a ripetere di cui parla Freud, che possono non scomparire anche quando sia stato portato alla coscienza il meccanismo stesso.
Evidentemente si tratta di un segnale (il sintomo) di una dinamica che va ben più in profondità e che porta in sè un messaggio che deve essere sempre tenuto presente dal soggetto stesso.
Di fronte ad un sintomo che non scompare differenti possono essere le ipotesi, a più livelli di profondità, ma una delle domande che è necessario porsi è: "Quale vantaggio secondario produce tale comportamento? " A volte scattano dei meccanismi inconsci molto simili alle credenze superstiziose, per cui ci si identifica talmente con la propria "minorazione", si è talmente "affezionati" al proprio sintomo, che si arriva a temere che, liberati da quel malessere, chissà cosa ci potrà accadere! Si tratta di una sorta di riserva profonda che ci preserva dalla possibilità di stare bene come se ciò fosse in realtà pericoloso.
La dinamica sottostante sembra quella di una inconscia quanto ostinata rinuncia alla condizione di benessere, di libertà interiore, di integrità, ed una sorta di autocostrizione a rimanere fissati ad un livello di vita legato alla preoccupazione per la sopravvivenza: finchè permane in noi una "lotta per la sopravvivenza" la nostra energia è impedita a liberarsi verso sfere più elevate.
Per tornare allo schema tripartito di Jung, per cui una parte di energia si libera progressivamente dal livello dell’istinto a quello della psiche a quello dello spirito, è come se un lato in noi agisse per legare la maggior parte dell’energia al livello più basso, impedendone la liberazione.
Ne risulta ancora una volta una percezione di sè riduttiva, impoverita, mutilata: a qualche livello in stato di schiavitù.
Questa dinamica è qualcosa che riguarda molto da vicino il femminile nel suo aspetto più ombroso: è il consenso dato ad una passività che suona eccessiva, una sorta di rinuncia alla coscienza, una sottomissione volontaria a qualcuno o qualcosa pur di ridurre la responsabilità di farsi carico e di rispondere di sè in prima persona.
E’ l’elogio della falsa umiltà, della piccineria: il fascino perverso di vivere sempre un pochino al di sotto delle possibilità, il mondo della riserva, la politica del non osare: meglio la sofferenza conosciuta piuttosto di ciò che è sconosciuto, fosse anche la gioia.
E’ la rinuncia ad essere a pieno titolo, a tutti gli effetti per ciò che si è.
A questo proposito ho trovato alcune riflessioni splendide di una monaca del 1500, Teresa d’Avila la quale, dopo aver fondato un ordine monastico ed averlo diretto per alcuni anni, si diede alla vita contemplativa e mistica.
Ci sono, nei suoi scritti, indirizzati alle monache di cui fu guida e riferimento, numerosi inviti a riconoscere l’utilità del nutrire desideri grandi, del non accontentarsi di essere anime piccine; ella mette in guardia contro quella falsa umiltà di cui soffrono in particolar modo le donne.
Queste - scrive - hanno la tendenza ad indulgere eccessivamente nel timore, dando troppo ascolto alle rimostranze dell’intelletto e della debolezza, e a comportarsi da pusillanimi (con animo meschino) mettendo avanti l’esistenza di mille difficoltà e una umiltà fuori luogo ed affatto inopportuna.
A questi atteggiamenti Teresa replica invitando le sue monache a quella che chiama una santa presunzione che, lungi dal negare l’umiltà, aiuta a crescere nel suo esercizio.
Mi sembrano riflessioni estremamente valide ed attuali, verso un atteggiamento del femminile, presente quindi in uomini e donne, e, più in generale, un atteggiamento dell’Essere, che ancora si difende dal farsi cosciente del suo stesso essere, e che resta pertanto prigioniero di una unilateralità, tutt’uno con l’aspetto oggettuale, con la materia.
E’ l’atteggiamento che perpetua l’antica scissione tra essere e coscienza di essere, tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, tra Maschile e Femminile, tra spirito e materia, tra mente e corpo, tra padrone e schiavo.
Allora l’invito sembra essere questo: ogni volta che scopriamo in noi un atteggiamento di schiavitù, una tendenza a farci dipendenti, invece di colpevolizzarci o rimuovere, se proviamo a sgombrare il campo dai tentativi egoici di appropriazione indebita, possiamo riflettere e cogliere la dinamica essenziale: è un’occasione che l’Essere incontra, qui ed ora attraverso di noi - per farsi un po' più consapevole di sè, per uscire da una condizione d’esistenza limitata, e per affermarsi consapevolmente come Essere.
Allora, come ha detto Ada Cortese in una precedente conferenza intitolata "La donna come strumento di redenzione dell’oggettualità universale", ai cui atti rimando tutti coloro che vogliano approfondire questa lettura di più ampio respiro, " (...) la vera soggettività può nascere quando il soggetto umano, maschio o femmina che sia, si incontri col proprio essere servo, col proprio femminile." (vedi "Individuo e branco", atti delle conferenze tenute a GEA nel 1991-92).

Genova 7 Aprile 1995

Agnese Galotti


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