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N° 05 Agnese Galotti

Agnese Galotti

 CONFERENZE 

IL NEMICO UTILE

Dal vittimismo all’atteggiamento dialettico.

Questo titolo un po' provocatorio credo possiamo intenderlo almeno secondo due accezioni diverse:

1) La prima, che definirei pre-dialettica è quella in cui vige il bisogno di un nemico fuori quale detentore della colpa che giustifica la nostra impotenza.
E’ la situazione in cui prevale l’unilateralità, una scissione piuttosto rigida tra ciò che è bene e ciò che è male come "oggettivamente" intesi, in cui l’individuo pone la propria identità in quella parte della personalità che forma l’Io cosciente, vale a dire nell’immagine di sè conosciuta ed accettata.
Tutto ciò che l’individuo sperimenta ma che non rientra in quegli aspetti dell’Io ritenuti accettabili è qualcosa che viene vissuto come "esterno", come indotto da altri, con cui non si ha nulla a che vedere salvo il fatto di trovarsi a subirlo: viene a nascere così il totalmente altro da sè.
Ma poichè la nostra personalità non si esaurisce nell’Io cosciente, questa identità è salvaguardata proprio dal costituirsi di questo nemico fuori su cui proiettare tutto il resto.
E’ il totalmente altro da noi che si assume - ai nostri occhi ingenui - la responsabilità e la causa di tutto ciò che non ci va bene, che ci fa soffrire, che crea conflitto.
Persona evento o situazione che sia, il nemico è caricato del peso in senso giustificativo, della colpa di chi si oppone a noi ed ostacola il nostro benessere.

2) La seconda, che definirei dialettica, è quella in cui il nemico è colui che ci spinge e costringe al cambiamento, trasformandosi così in alleato.
E’ la situazione in cui è avvenuto il riconoscimento in sè di parti inconsce (spiacevoli, ombrose o comunque in conflitto con l’Io cosciente), quindi è avvenuta l’accettazione del conflitto quale situazione che inevitabilmente si viene a creare tra le parti interne.
La tensione generata dal conflitto, se il soggetto non cede alla tentazione di liberarsi velocemente di uno dei poli, porta al superamento dell’opposizione, dunque alla comparsa di quel "terzo punto", sintesi tra i due precedenti, in un movimento dinamico che consente la soggettivizzazione.
Allora l’altro, interlocutore interno o empirico che sia, anche quando sia percepito come "nemico", attivatore cioè del conflitto e della sofferenza ad esso legata, rivela il suo aspetto di alleato necessario, in quanto capace di mettere in evidenza il limite, la tendenza all’unilateralità, e si pone quale stimolo costante al superamento della posizione fin lì raggiunta, impedendo l’assolutizzazione di una tappa.
Ma deve trattarsi allora di un degno nemico, come quello di cui ha bisogno un guerriero per essere tale, quel nemico capace cioè di costringerci compiere un salto che da soli non faremmo mai.
Di fronte a tale degno nemico, come dice di Don Juan al suo allievo Castaneda: "Potresti dover far uso di tutto quello che ti ho insegnato: non hai altra alternativa. (...) Il tuo avversario è sulle tue tracce e per la prima volta nella vita non ti puoi permettere di comportarti a casaccio.
Questa volta dovrai imparare un fare completamente differente, il fare della strategia. Ragiona così: se sopravvivi agli assalti della Catalina [donna dotata di magici poteri che mette alla prova l’apprendista stregone] dovrai ringraziarla un giorno o l’altro per averti costretto a cambiare il tuo fare." E il fare della strategia, spiega ancora Don Juan: "comporta che non si è alla mercé della gente." Dunque il degno nemico è la situazione in cui è intuito un che di profondo che la rende sensata, anche se non meno dolorosa, in virtù del superamento verso cui ci spinge.
A queste due accezioni è sottesa una profonda differenza di atteggiamento:

1) Nella prima c’è un atteggiamento negativo, nel senso di volto alla negazione del conflitto come evento naturale e a noi connaturato, un atteggiamento che nega il senso evolutivo ed esistenziale del dolore, della fatica, della tensione che la vita stessa in sè porta.
Permane l’illusione di un Eden come situazione naturale in cui il soggetto potrebbe restare se non ci fosse l’intruso, l’estraneo, l’incidente esterno che disturba e interrompe la quiete.
In quest’ottica, tutto ciò che genera dolore e contrasta il benessere deve essere quanto più possibile reso estraneo, osteggiato e combattuto, negato come possibile evento dotato di senso, nell’illusoria ricerca di una felicità intesa come annullamento di ogni tensione.
Paradossalmente questa ricerca di pace assoluta è proprio quello che, in virtù della negazione dell’altro su cui si fonda, genera le più terribili ed insensate guerre.
A questo proposito trovo particolarmente pertinente quanto il celebre scrittore Primo Levi annota nell’introduzione a "Se questo è un uomo": "A molti individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico.
Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finchè la concezione sussiste le conseguenze ci minacciano."

2) Nella seconda c’è un atteggiamento affermativo in cui, riconosciuta la polarità generata dal "due", dall’esistenza degli opposti, che si affacciano ovunque e in primo luogo dentro di noi, riconosciuta l’impossibilità di risolvere la tensione facendo fuori il nemico, facendo cioè prevalere uno dei due poli ed annientando l’altro, (e questo non per fede ma per esperienza, perchè il nemico cacciato fuori dalla porta torna ad entrare dalla finestra) , viene ricercata la sintesi dei due, il loro superamento in quel terzo punto virtuale nel quale il soggetto, ponendosi, nasce come tale.
E’ l’atteggiamento che cerca il senso a partire da ciò che è per quello che è, l’accettazione della condizione umana che è tale in quanto uscita dall’Eden primordiale, dalla incoscienza beata, ed entrata nel travagliato mondo dei contrari, della coscienza, della cultura.
E’ il passaggio dalla negazione o rimozione del conflitto alla tensione verso il superamento dello stesso.
Vediamo ora come si configura il "rapporto col nemico" nella fase che ho definito pre-dialettica, in quanto caratterizzata dall’insanabile contrapposizione tra l’Io e il non-Io.
E’ evidente che, se teniamo conto della variabile inconscio, non possiamo ritenere che la personalità come fenomeno totale coincida con l’Io e si esaurisca in esso, cioè con la parte cosciente.
Jung ha proposto di indicare la personalità totale (cosciente ed inconscia) con il termine SE’: l’Io è quindi per definizione subordinato al Sè e si comporta nei suoi riguardi come una parte verso il tutto.
Allora è proprio il Sè il primo altro che l’Io incontra nel suo costituirsi come coscienza.
E mentre comincia a sperimentare le limitazioni che il mondo esterno gli pone, l’Io sperimenta nei confronti del Sè analoghe limitazioni al suo "libero arbitrio": come gli eventi esterni "accadono" e ci limitano, così anche nel mondo interno si fanno sentire degli "accadimenti" che l’Io in qualche maniera subisce senza potersi più di tanto imporre.
Quindi l’Io si trova nella difficile posizione di chi deve adattarsi a situazioni che accadono e lo minacciano da due fronti. Ma mentre l’adattamento al mondo esterno è generalmente facilitato dall’aderenza a modelli che il sociale stesso propone, gli attacchi all’incolumità dell’Io provenienti dal mondo interno si rivelano ben più insinuanti, in quanto ne minacciano la coerenza con se stesso, mettendo in pericolo il senso di integrità della personalità tutta.
Ecco perchè i contenuti inconsci, cioè le pulsioni e quanto non si accorda con le regole dell’Io, tendono ad essere proiettati fuori: per mitigarne in qualche modo la pericolosità.
Il Sè, la totalità della nostra personalità, con tutte le valenze inconsce, sovrapersonali ed universali che le competono, si manifesta all’Io inizialmente come una realtà oscura e nemica; non a caso uno dei primi archetipi in cui ci imbattiamo, quando ci apriamo all’inconscio, è proprio l’archetipo dell’ombra, cioè l’insieme di quei tratti oscuri, spiacevoli o vissuti dall’Io come "indebolenti" che l’Io ha tentato di disconoscere.
"Sono generalmente - scrive Jung - aspetti della personalità che possiedono una natura emotiva, una certa autonomia, e di conseguenza sono di tipo ossessivo o meglio possessivo.
L’emozione infatti non è un’attività ma un accadimento che investe l’individuo." Prendere coscienza dell’Ombra - che è il primo passo verso la coscienza di sè e la conoscenza del Sè - significa riconoscere come realmente presenti gli aspetti oscuri della personalità: quegli aspetti il cui riconoscimento è fonte di ansia, insicurezza, senso di debolezza dell’Io.
Ma mentre alcuni aspetti inconsci sono facilmente riconosciuti dal soggetto e, con l’aiuto di intuizione e buona volontà, integrati alla coscienza, ve ne sono altri che oppongono una resistenza ben più massiccia: questi sono quegli aspetti che vengono proiettati fuori, che vanno a caratterizzare il probabile nemico.
Va detto che chi proietta non è il soggetto cosciente e la proiezione non è qualcosa che venga agito consciamente: è un atto operato inconsciamente, per cui le proiezioni non si fanno, ma vengono trovate già fatte.
Infatti in caso di proiezione vengono meno tanto l’intuito quanto la volontà, perchè la causa dell’emozione sembra, al di là di ogni dubbio, trovarsi nell’altro.
Ma per essere disposti a distaccare dal loro oggetto esterno le proiezioni di tonalità affettiva in cui ci imbattiamo (e possiamo riconoscerle dal vissuto di marcato fastidio che determinati aspetti dell’altro ci inducono) dobbiamo sviluppare quel tanto di umiltà da riconoscere di poter avere, talvolta, anche torto.
Un segnale di proiezione in atto, oltre al vissuto di intolleranza istintiva, può essere l’ostinata impotenza con cui ci troviamo a subire una situazione che pure vorremmo diversa, là dove sembra esserci sempre solo qualcun altro ad avere il potere di agire un cambiamento: eppure il potere che l’altro esercita nei nostri confronti è sempre il potere che noi, nel bene e nel male gli abbiamo concesso.
Prova ne è il fatto che il vissuto che sia l’altro ad avere il potere, sussiste talvolta anche quando l’altro concretamente non c’è più, o non è più in contatto con noi.
Conseguenza della proiezione è inoltre una sorta di isolamento dal mondo circostante, in relazione al quale il soggetto vive un rapporto illusorio anzichè reale.
Con la proiezione noi prestiamo al mondo esterno il nostro volto che, come tale, resta a noi sconosciuto.
Ne deriva un senso di incompletezza e di impotenza talvolta massiccio, quasi che il soggetto non riconoscesse più in se stesso alcuna capacità di incidere sull’ambiente esterno e sulle proprie vicende, insieme ad un vissuto crescente di malevolenza dell’ambiente stesso, in un circolo vizioso che non fa che rafforzare l’isolamento.
Sono situazioni in cui è in atto una proiezione tutte quelle in cui, in qualsiasi contesto relazionale ci troviamo, abbiamo un vissuto del tipo: "tutto potrebbe andar bene, io potrei essere felice se solo l’altro..." Pensiamo ai rapporti di coppia, in cui è più massiccia che mai la delega all’altro della nostra felicità, ma talvolta anche della nostra stessa esistenza; ai rapporti affettivi in genere, in cui la madre con la sua possessività, o il padre con la sua rigidità, o il figlio che non comunica, ... viviamo spesso qualcuno come causa del nostro malessere, qualcuno a cui vogliamo bene e che quindi "ci deve" quella piccola cosa che chiediamo; o pensiamo ai rapporti di lavoro in cui c’è spesso il "nemico comune" contro cui fare fronte, quasi quello fosse l’unico atteggiamento che permette una sorta di collaborazione e di alleanza, ...
Gli esempi possono essere tanti e ognuno ne può trovare di validi e significativi nella propria esperienza.
Per fortuna l’inconscio spiazza queste convinzioni, come denunciano sogni tipo questo:

>La sognatrice incontra la propria datrice di lavoro, il "nemico" del momento, che, con una intensità ed intimità sorprendenti la abbracciava dichiarandole il suo amore! <

Sono tutte situazioni in cui, certo, l’altro è qualcuno che si presta ad incarnare tali parti negative ma, finchè non viene ritirata la proiezione, resta qualcuno verso cui ci poniamo eccessivamente in balìa, nel rapporto col quale perdiamo la nostra soggettività e indugiamo nel sentirci vittime.
Talvolta questa elezione del nemico fuori è qualche cosa che catalizza la gran parte delle nostre energie, che restano così sempre deviate rispetto alla loro vera meta.
Il senso di isolamento e il vissuto di persecuzione e malevolenza del mondo esterno può amplificarsi in un crescendo pericoloso, fino a raggiungere delle forme patologiche di paranoia.
E quante più proiezioni sono presenti tanto più è difficile per l’Io arrivare a capire le proprie illusioni, la propria visione distorta.
Il nemico talvolta non è individuato in una persona in carne ed ossa, ma vissuto in maniera più generalizzata: sono piuttosto frequenti i vissuti di essere sfortunati, perseguitati da un destino ingiusto, vittime di un accanimento di Dio.
E’ tragico come talvolta qualcuno arrivi a rovinare la propria vita e quella dei chi gli sta accanto rimanendo totalmente incapace di capire fino a che punto l’intera tragedia derivi da lui, e dal suo atteggiamento, sia costantemente alimentata.
Talvolta infine il nemico è individuato come interno a sè, come quella forza coatta che ci spinge ad agire in un certo modo e ci induce la peggiore sofferenza: ma anche in questo caso c’è una alienazione, un estraneamento in quanto il sintomo è vissuto come qualcosa verso cui "non possiamo fare nulla" nei confronti del quale siamo totalmente impotenti. E’ lui il colpevole.
Bisogna poter uscire da un infantile modo di ragionare in termini di colpa rispetto al dolore e le sofferenze che la vita comporta e, ribaltando il tutto, cominciare a ragionare in termini affermativi, di ricerca del senso.
Così dice un sogno a proposito del "circolo vizioso" generato dall’ottica della colpa:

> La sognatrice incontra un bambino dall’aspetto particolare in quanto aveva i capelli bianchi, da vecchio, il quale era stato mandato da un uomo, dall’aspetto rozzo e primitivo, a cercare il colpevole, non si dice di che cosa.
Il bambino compie le sue indagini in una costruzione che sta peraltro cadendo in pezzi, ed infine parla: il colpevole risulta essere il mandatario stesso.<

Dunque "colpevole" è ragionare in termini di colpevolezza, che toglie all’evento ogni altro possibile senso.
Il dolore più grande e più sterile che possiamo vivere è proprio dato dalla mancanza di senso: è il dolore inutile generato dalla ripetizione di dinamiche sempre uguali.
Ma le situazioni di sofferenza spesso continuano a ripetersi uguali fino a che in noi, nel nostro atteggiamento non scatta qualcosa che immette il cambiamento.
Uscire da una dinamica ripetitiva non significa aver "risolto" qualcosa ma averlo "superato" proprio nel senso di aver lasciato qualcosa. Paradossalmente non richiede che sia stata vinta una battaglia, bensì che sia avvenuta una resa totale.
Cogliere il senso infatti non significa raccontarsela, trovare immediatamente una nuova risposta, che potrebbe suonare quale nuova giustificazione, non significa trovare spiegazioni razionali frutto di arrovellamenti mentali.
Per approdare alla nuova conoscenza, al nuovo livello di consapevolezza cui la vicenda, il nemico-alleato ci sta conducendo, dobbiamo prima lasciare le sicurezze precedenti, l’arroccamento alla posizione coscienziale raggiunta, evitando di scambiare quella che è una tappa con un ipotetico traguardo, ed affidarci all’intuizione nuova che, in quanto tale, non si svela se non in un secondo tempo.
Bisogna prima vivere tutta la vicenda affidandosi al senso profondo in essa contenuto, lasciando cadere ogni velleità egoica di controllo, e solo dopo, quando l’esperienza avrà potuto avere luogo in tutta la sua estensione, sarà possibile recuperare la distanza riflessiva che disvela il senso e lo traduce in pensiero, in parola. Prima no.
E’ necessario prima rinunciare al controllo.
E’ la resa totale che consente la fine della contrapposizione, della sfida.
Paradossalmente il senso non emerge dalla vittoria sul nemico, ma dall’arrendersi ad esso consapevolmente.
Arrendersi significa accettare il limite, e da sempre il limite più grande che l’uomo abbia mai incontrato è la morte.
Insegna Don Juan a Castaneda: "Gli stregoni dicono che la morte è il nostro unico degno avversario. La morte è il nostro sfidante. Noi nasciamo per accettare questa sfida.
I maghi lo sanno, gli uomini comuni no. (...) la vita è il sistema tramite cui la morte ci sfida. (...) è l’arena in cui ci sono solo due contendenti alla volta: noi stessi e la morte.
Gli sciamani sconfiggono la morte nel senso che la morte smette di sfidarli, ciò significa che il pensiero ha fatto un balzo nell’inconcepibile." Vale a dire: è avvenuta un apertura all’inconscio.
Ora l’irrompere dell’inconscio che l’Io tanto teme, non è soltanto l’emergere dell’Ombra e dei contenuti legati all’individualità inconscia. Nell’accezione junghiana di inconscio collettivo ciò che irrompe e sommerge l’Io è anche quella Totalità cui il Sè ci rimanda, quell’insieme di contenuti - inconsci all’Io - dotati però di una profonda perchè universale conoscenza, di cui la coscienza soggettiva può via via arricchirsi se accetta di lasciarsi bagnare (i sogni di onda anomala, pioggia o acqua) , di farsi contagiare (i sogni di siringhe) .
E ciò che la coscienza scopre è il possibile superamento dell’opposizione: e arrivano i sogni in cui, nonostante il timore di morire, l’individuo scopre di poter respirare sott’acqua.
Jung propone un modello dinamico in cui l’energia psichica, la libido segue due tipi di moto: un moto progressivo ed un moto regressivo, entrambi necessari all’evolvere della coscienza.
Il moto progressivo è caratterizzato dall’evolvere, attraverso una continua dialettica dei valori contrari, da un livello a quello successivo e più elevato di coscienza; il moto regressivo è inteso non come involuzione, ma come immersione temporanea nell’inconscio che consente di cogliere nuovi simboli, nuovi modi esistenziali che via via saranno integrati alla coscienza.
L’alternarsi del moto progressivo e del moto regressivo della libido rende possibile quel continuo dialogo tra coscienza ed inconscio che è implicato dal processo di individuazione.
L’uomo nasce come soggetto nel momento in cui si fa consapevole del proprio essere altro, da un lato rispetto alla vita pulsionale (scopre di non essere tutt’uno con la sua istintività) , e dall’altro rispetto al suo Io come coscienza razionale, con cui non può più identificare la propria personalità totale.
Le pulsioni e l’Io inducono in lui una costante tensione conflittuale: tale conflitto può trasformarsi in processo dialettico proprio grazie all’emergere dei contenuti dell’inconscio collettivo, dall’incontro con gli archetipi: l’Io può integrare questi ultimi alla personalità quali modi di esistenza che finora sfuggivano al suo controllo e, divenendo arbitro della propria libido, può realizzare nuove forme d’esistenza umana.
Chi si impegna in questo processo deve rendersi disponibile ad essere invaso dai contenuti dell’inconscio, accettare la tendenza alla regressione e alla perdita dell’egoicità, deve accettare di morire per rinascere ad una nuova dimensione.
E come gli eventi del mondo interno, le proiezioni, i meccanismi di difesa "accadono" agli occhi dell’Io, così anche i salti coscienziali, il progressivo superamento di un conflitto e l’accedere ad una nuova sintesi è sperimentato come qualcosa che "accade" da sè, previa l’adesione totale al processo stesso.
Si può solo dire SI’ o NO, non ci è dato scegliere nè i modi nè i tempi. E questo è tutt’altro che facile da accettare per l’Io! Il processo di individuazione porta con sè il ripetersi di un sacrificio in cui l’uomo è ad un tempo sacrificante e sacrificato, perchè è necessario che nella vicenda di morte resti pur sempre viva una presenza presenza.
Allora questo processo dialettico si svolge in tre momenti significativi che possono anche dirsi come tre momenti sacrificali:

1) riguarda l’atteggiamento possessivo e razionale dell’Io, e la rinuncia all’interpretazione razionale del mondo, al comune senso di realtà, all’ovvietà del quotidiano, (per cui, ad esempio, determinate cose sono "una fortuna" ed altre "una disgrazia" secondo canoni oggettivi) . E’ la rinuncia che apre l’uomo alla disponibilità verso nuove possibilità di vita, accettando smarrimento e confusione, perdita di certezze e di riferimenti.

2) Riguarda la seduzione a realizzare senza limiti, contraddizioni nè tensioni, questa pienezza di vita e d’esistenza che si presenta come visione paradisiaca che comporta la perdita della presenza.
Qui il sacrificio è quello dell’appagamento immediato della stessa tensione trasformativa, per cui il soggetto realizza che la libertà intuita, ovvero le nuove possibili realizzazioni di sè, non stanno nell’appagamento immediato del suo desiderio, ma nella canalizzazione della tensione verso mete socialmente (ovvero universalmente) valide.

3) Riguarda il pericolo di inflazione della libertà dell’Io: il rischio di sentirsi padroni della vita in virtù della propria capacità, sperimentata, di dominare le violente passioni, il che porterebbe a negare l’inconscio come soggetto attivo.
Il sacrificio consiste allora nella rinuncia al sentimento di onnipotenza, in cui il soggetto si riconosce quale esecutore del processo che in lui si dà.
E ciò che consente all’uomo di liberarsi della fantasia di onnipotenza, dal rischio di sentirsi ancora egoicamente padrone della propria esistenza è il simbolo del SE’, che gli spalanca in una intuizione improvvisa la visione della relatività dell’Io all’interno di una dimensione molto più ampia che è quella universale, di tutto l’Essere che lo comprende e gli è immanente.
Il Sè è conosciuto allora dal soggetto - dice Jung - come "colui che vive in lui e la cui forma non ha frontiere riconoscibili, che lo racchiude da ogni lato, profondo come le fondamenta della terra e spazioso come l’immensità del cielo." Ma il Sè è attuato dall’Io nell’individualità di ciascuno, là dove, compiuto il sacrificio dell’onnipotenza egoica, l’Io si riconosce quale portatore responsabile del divenire che si realizza in lui e, tramite lui, nell’umanità.
All’Io è dunque lasciata la libertà di scegliere quale atteggiamento assumere nei confronti del conflitto stesso, con ciò che si configura di volta in volta come nemico: può cioè assumerlo in sè e tentare una sintesi (atteggiamento affermativo) , o può rifiutarlo e restarne alienato. Riporto ad esempio due sogni d’inizio analisi, prodotti dalla stessa persona:

> La sognatrice si trova sdraiata lungo la carreggiata di un’autostrada sulla quale sfrecciano pesanti camion. Non è legata nè costretta e la sua attenzione è catturata di volta in volta dal camion che sta sopraggiungendo, mentre si domanda se questa volta la investirà o se riuscirà ad evitarla. Il pesante mezzo la evita, e lei torna con lo stesso interrogativo a concentrarsi sul successivo. Infine, per fortuna, si risolve ad andarsene. <

>La sognatrice - che peraltro nutre una paura quasi ossessiva delle malattie - ha appena ricevuto i risultati di alcune analisi mediche. C’è sua madre con lei che le dice "così almeno saprai".<

Ma se si accetta l’atteggiamento dialettico, affermativo, si vanifica ogni giustificazione esterna, ogni lamentosità autoindulgente.
Diventa evidente ogni meccanismo di fuga dall’angoscia. E questo non è assolutamente facile nè tantomeno immediato per l’Io, che si difende strenuamente da questa forma di anonimo eroismo. Infatti scegliere l’atteggiamento affermativo significa scegliere di osare. Il medesimo evento, dunque, può rivelarsi distruttivo e annientarci, oppure fortemente propulsivo e alleato.
"L’angoscia è provocazione e dovere - scrive Jung - perchè solo l’impresa audace può liberare dall’angoscia.
E se non si osa si perde il senso della vita e si è condannati al grigiore rischiarato soltanto qua e là da qualche fuoco fatuo." E questo vale per qualsiasi evento ci si presenti.
Non c’è da stupirsi allora che proprio gli eventi più angoscianti, più comunemente esorcizzati si rivelino, se accolti all’affermativo, i momenti di maggiore spinta al salto coscienziale possibile.

Genova 20 Gennaio 1995

Agnese Galotti


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