SILVIA MONTEFOSCHI
Il senso della Psicoanalisi
Incontri e conversazioni realizzati presso la nostra sede.
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Introduzione al libro:
Il Sistema Uomo

di Silvia Montefoschi

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ripetere gli scritti gli uni degli altri, servono
da strumenti a questo Spirito per dare al
mondo opere sempre nuove. E se le anime
sapessero sottoporsi a quest'azione, la loro
vita non sarebbe che una continuazione
delle divine scritture, le quali si esprimono
fino alla fine del mondo non più con
l'inchiostro e sulla carta, ma nei cuori.

J.P. de Caussade
L'abbandono alla divina
provvidenza

La premessa ad un libro viene scritta quando si avverte la necessità, come in questo caso, di fornire al lettore una chiave interpretativa o, forse meglio, quando si vuole specificare l'ambito della conoscenza entro il quale il discorso che si svolge giustifica o meno la sua veridicità.
Se dovessi usare questo criterio, mi troverei in un grande imbarazzo, perché la premessa stessa dovrebbe in tal caso venir giustificata dal discorso al quale vuole premettersi.
Infatti, per spiegare la chiave di lettura dovrei già servirmi di quella logica rovesciata, rispetto a quella corrente, che troverà la sua giustificazione nel fatto che essa scaturisce proprio da quel processo di rovesciamento di cui nel libro si discorre.

Ma di che logica si tratta?
L'unico metodo di pensiero cui oggi si dà credito nelle due varianti contraddittorie, soggettivistica e oggettivistica, idealistica e positivistica, nominalistica e realistica, si fonda sul principio di non contraddizione proprio della logica formale, il quale però deriva, come necessità, dall'attuale sistema conoscitivo dell'uomo inerente alla sua struttura psichica.

Questo sistema considera il soggetto conoscente come essenzialmente altro dall'oggetto conosciuto, nel senso che chi conosce pone la realtà di cui fa conoscenza al di fuori della funzione conoscitiva, come occhio che vede e considera se stesso come estraneo al mondo che esso vede.
Questa dualità di soggetto-oggetto, ha mantenuto tutt'oggi aperta la questione epistemologica fondamentale: questione che si dibatte da sempre intorno alla natura della conoscenza e alla sua possibile veridicità.
Da una parte si sostiene che la conoscenza sia oggettiva, ovvero che la realtà si dia come esistente in sé indipendente da chi la conosce, sicché il conoscere diventa un tentativo di avvicinarsi progressivamente ad essa mediante una lettura della stessa, che richiede però la verifica di prove, dimostrazioni o confutazioni.

Dall'altra si sostiene che la conoscenza sia soltanto soggettiva, e che sia pertanto impossibile arrivare a sapere alcunché della realtà in sé. E si arriva anche a negare, indicandolo come falso problema, l'esserci sostanziale del reale.
Questa impossibilità di raggiungere una qualsiasi verità sul reale, viene però superata se l'uomo, anziché identificarsi nel soggetto conoscente, creatore egli stesso della visione del reale, si riconosce come oggetto del creato, riponendo in Dio il soggetto che, conoscendo, crea il mondo. In tal caso l'uomo può sì raggiungere la certezza della veridicità del suo conoscere in quanto rivelazione divina, ma già si è trasceso nell'esperienza mistica che nell'ambito della problematica gnoseologica non fa testo.

Il pensiero umano non è mai uscito da questi due corni del dilemma; però ciò che non è mai stato dibattuto è il fondamento di questo modo di pensare: la dualità soggetto-oggetto, che è rimasta sempre un presupposto intangibile.
Tant'è che, se di quando in quando viene tentato quel rovesciamento del punto di vista il cui fine è mostrare che è l'oggetto stesso che nel soggetto si conosce, già si grida all'irrazionale, dimenticando tra l'altro che la definizione di razionalità è stata anch'essa a sua volta assunta come convenzione.
Tuttavia l'accettazione di questi unico sistema conoscitivo non è un a priori arbitrario su cui l'uomo ha dimenticato di riflettere, ma piuttosto un modo strutturalmente condizionato del rapportarsi dell'uomo a se stesso e al mondo. E questo modo è quello dell'immediatezza, che fa sì che venga assunto come fatto naturale il risultato della percezione immediata che il conoscente fa di se stesso, sicché egli resta imprigionato nell'immagine univoca di sé.
In questo libro si parla, appunto, di questo condizionamento e del suo superamento, che oggi si annuncia come conquista, da parte dell'uomo, di un piano più elevato di visione da cui il soggetto può arrivare a vedere se stesso come il luogo ed il momento in cui il reale si conosce e si dice.

Stando così le cose mi è impossibile, nella premessa, giustificare la veridicità di quanto nel libro viene detto utilizzando la visione oggettiva del reale, un reale altro da me che lo descrivo. Infatti, dal piano di osservazione più elevato che mi rivela viceversa che la conoscenza che io faccio del reale è il reale che in me conosce se stesso, una qualsiasi dimostrazione equivarrebbe all'insensatezza di voler dimostrare con le parole che io sto parlando. Come trovare allora un criterio di veridicità che renda credibile all'altro questa nuova visione che all'altro è inconsueta?

"Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere". 1 Con questo aforisma Wittgenstein conclude il suo Tractatus, dopo averci dimostrato l'illusorietà del senso del discorso in riferimento al mondo.
Infatti, essendo le proposizioni della logica delle tautologie, il linguaggio trova il suo senso esaurendo in se stesso il suo significato, così che esso nel mostrar se stesso non asserisce alcunché al mondo.
E se ciò che il linguaggio rappresenta è il proprio senso, esso non ha la possibilità di dimostrare la propria verità o falsità.

D'altra parte il linguaggio non può neppure mostrare il soggetto del linguaggio stesso: "Ciò che nel linguaggio esprime sé, noi non possiamo esprimere mediante il linguaggio".
Cosa del resto comprensibile, dato che non si può riflettere sul soggetto riflessivo senza farne un oggetto della riflessione, così come non si può parlare del creatore senza farne un creato.
E se il soggetto parlante non può dirci nulla del mondo e neppure di se stesso, non essendo esso qualcosa di cui si possa parlare, il linguaggio, estraneo al mondo di cui parla, smarrisce in se stesso il senso del suo dirsi.

Wittgenstein ci dà così la dimostrazione, tutto sommato radicale, del limite della logica formale, in quanto ci prova il non senso del nostro parlare quando colui che parla è posto come altro dal mondo di cui parla.
Egli però, proprio così facendo, ci indica anche dove sta l'imbroglio che ci fa porre il soggetto al di fuori del mondo.
L'imbroglio sta nel non poter mai rimettere in questione, restandone all'interno, quella forma di coscienza univoca che suppone che il visto sia tutt'altro e al di fuori del veggente, e vuole pertanto considerare il soggetto che vede come fosse un oggetto che si vede, e così facendo lo insegue di oggetto in oggetto senza mai trovarlo.

"Ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico? Tu dici che qui è proprio così come con occhio e campo visivo. Ma l'occhio in realtà non lo vedi". 3

"Il soggetto che pensa, immagina, non v'è". 4

"Il soggetto non appartiene al mondo". 5

Così il soggetto che crea il mondo viene ad essere il creatore increato e "Dio non rivela sé nel mondo". 6

Se però si rinuncia a quell'assunto che vuole la dimostrabilità dell'essere soltanto nella sua oggettivazione, ci si accorge che se è pur vero che noi non vediamo l'occhio, quale capacità di vedere, l'occhio mostra se stesso (e quindi il suo esserci nel mondo) nel farci vedere il mondo, così come non vediamo il soggetto, quale capacità di riflettere il mondo, ma il soggetto mostra se stesso, quale presenza nel mondo, nel farci riflettere il mondo.

Il soggetto si rivela pertanto nel momento riflessivo in cui il mondo riflette se stesso; il momento in cui il mondo si crea discorrendo di sé. Esso è dunque "l'ineffabile", così come lo è il parlante che non può parlare di sé se non come oggetto del suo stesso discorso. Il soggetto pertanto non è, ma diviene, sfuggendo sempre alla sua oggettivazione.
Ma se del soggetto non si può parlare come di un oggetto del mondo, perché è esso stesso che parla di sé parlando del mondo, ciò vuol dire che esso, "l'ineffabile", è del mondo, quale scaturigine del discorso che non è mai finito.
Sicché, se "[su] ciò di cui non si può parlare si deve tacere" è perché si deve necessariamente stare in silenzio fintanto che in noi l'ineffabile non parli, parlando del mondo, o è forse meglio dire fintanto che il mondo non torni a parlare in noi, parlando di sé.

Dio, quindi, si rivela nel mondo. Ma per quanto possa dire di sé in questo o quel discorso dell'uomo, Egli, quale soggetto che dice o quale occhio che vede, resta pur tuttavia l'indicibile, l'invisibile, e quindi il mistero, ovverosia l'essere di cui non ha senso dir altro se non che è. Cosicché, di rimando, qualunque cosa noi si dica di Dio e con qualunque nome lo si chiami, Eros, Logos, Energia, Elettrone, totalità dell'essere, evoluzione della coscienza o divenire della conoscenza, Colui che in noi così parlando si dice è sempre e comunque Dio, cioè il soggetto che resta nel mistero.
Eroso così alla radice il criterio della dimostrabilità soltanto oggettiva del vero, oggi non ci stupisce che "l'ineffabile" torni a parlare a colui che, non seguendo più il discorso istituzionalizzato della ragione, si pone in ascolto della propria intuizione.
E non ci turba poi tanto, anche se molto ci emoziona, che la Sua parola ci giunga con la stessa forza persuasiva della rivelazione con cui Egli si disse e si scrisse al tempo della prima creazione del mondo umano, quando nacque e si istituì l'ancora attuale coscienza dell'uomo.

Al di là, dunque, di ogni pretesa di esaurire il vero (cosa del resto coerente con l’ineffabilità del "Dio dai mille volti"), vera resta l'esperienza di chi, nel dire sì all'appello dell'intuizione, ha trascritto, quasi sotto dettatura, la parola dell'"ineffabile"; il quale torna oggi a dirsi, riallacciando il suo discorso attuale a quello delle antiche scritture, perché il tempo sembra essere ormai compiuto per l'attuarsi della nuova creazione.
Tornando, quindi, alla finalità della premessa, quella cioè di indicare l'ambito della conoscenza in cui il discorso si colloca, l'imbarazzo non può essere superato se non additando già quanto si vede da quel piano di visione che il discorso poi rivelerà.

Da questo piano, allora, come specificare il campo dello scibile in cui il discorso si muove? Si tratta di un tema religioso, di un pensiero filosofico o di una teoria scientifica?
Ma se da questo nuovo piano la conoscenza è intesa come l'autorealizzazione dell'essere, i vari campi dello scibile si rivelano quali modi diversi di dirsi dell'essere stesso, che nella coscienza umana prende conoscenza di sé.

Sta quindi al lettore scegliere la chiave che più gli corrisponde per interpretare il discorso che si svolge nel libro.
Esso, infatti, può essere considerato ugualmente una dimostrazione scientifica, una dissertazione filosofica, una riflessione teologica o un mitologema; se a qualcuno più piace anche un canto d'amore, o infine, come è per me, il racconto di un vertiginoso viaggio lungo i confini del mondo.

L'annuncio

In una luminosa stanza circolare dalla cupola di vetro sono davanti ad una scrivania, fatta di un piano di legno semicircolare poggiato sopra un cavalletto. Il piano di legno si muove, come volesse volar via. Lo rimetto più volte al suo posto ma inutilmente; infine esso si solleva nell'aria e comincia a spostarsi nella stanza con un moto vibratorio sempre più frequente.

Riconosco con sgomento e meraviglia che deve trattarsi di uno spirito. Vibrando, la tavola via via si trasforma nel telaio di una capsula in cui riconosco, con sempre crescente sgomento, una capsula spaziale. La capsula comincia a respirare in modo ampio, rumoroso e nel vibrare passa davanti al termosifone per catturare il materiale metallico con cui formare la tela che riempie gli spazi vuoti del telaio.

Il mio sgomento si fa paura. Possibile, dico, che si debba già andare? È troppo presto, non è ancora l'ora. Con dolore penso alla necessità di sciogliere i miei vincoli affettivi. La capsula precipita ai miei piedi e, come un essere vivente, solleva la mia gonna e mi bacia sulla coscia.
Mi sveglio sconvolta, mentre una voce dice: "Se non è maturo il tempo è necessario commettere il peccato".

E il viaggio ha così inizio.

Milano, settembre 1982 Silvia Montefoschi

(a cura di C.Allegretti)