Home Anno 16° N° 58 Pag. 4° Aprile 2007 Agnese Galotti


Agnese Galotti
 TEORIA 

DESIDERIO

Dall'animale pulsionale al soggetto desiderante.L'emergere dei modelli relazionali in psicoanalisi.

Il contesto

Il concetto di "Desiderio", etimologicamente inteso - de-sidera, ovvero lontano, separato dalle stelle - porta in sé contemporaneamente - il legame con l'oggetto cui si tende, cui è rivolto lo sguardo, - e la separazione da esso, la distanza, la mancanza, da cui deriva la sua funzione di spingere all'azione: desiderio come generatore di "movimento verso...".
Quindi ha la grossa valenza di elemento motivazionale, ciò che genera la spinta, il motore dell'umano agire, che può essere consapevole oppure inconscio.

A seconda dell'ambito in cui ci si pone, del contesto che fa da sfondo, il desiderio stesso, così come il bisogno, assume significati e conformazioni differenti, quali per esempio:

- il bisogno-desiderio percepito come stimolo corporeo (fame, eccitazione erotica, ...) che spinge ad un'azione capace di allentare la tensione creatasi (ambito psico-fisiologico, pulsione e istinto), - il bisogno-desiderio relativo all'altro della relazione - madre, partner, analista - colui che è di volta in volta "oggetto" con cui si interagisce (ambito relazionale), - il bisogno-desiderio di infinito, ciò che ha spinto da sempre l'umanità alla ricerca di una dimensione più ampia e più alta della vita, che apre ad una sempre maggiore espressione di sé (e di sé con l'altro), raffrontandosi creativamente con l'inevitabile senso del limite e della precarietà della vita, della finitudine (ambito della filosofia e delle arti o, se vogliamo, della psicoanalisi intesa come percorso di conoscenza, piuttosto che come terapia).

In psicoanalisi, inutile dirlo, il desiderio - nella sua peculiarità di elemento motivazionale - assume una valenza importantissima, laddove ci si interroga su ciò che motiva, di volta in volta, il comportamento umano, sia nei suoi aspetti sani che in quelli disturbati, e nel corso degli anni sono venuti a tracciarsi scenari anche molto vari ed eterogenei, a seconda della scuola di riferimento, tant'è che sono state formulate in proposito teorie tanto distanti tra loro da risultare talvolta incompatibili.

Premessa quindi la vastità degli orizzonti che il desiderio schiude nell'ambito del pensiero psicoanalitico, tenteremo qui un breve excursus per focalizzarne alcuni punti chiave.
Cercheremo di seguirne per un tratto le tracce, in quel passaggio, dal mio punto di vista cruciale, che va dalla teoria pulsionale, che caratterizza l'origine delle formulazioni psicoanalitiche, alla dimensione relazionale, oggi la più diffusa e condivisa, in cui il desiderio sembra restituito ad una dimensione più moderna e intersoggettiva, rispetto all'ambito fisiologico iniziale.

Vedremo tra l'altro come la formulazione iniziale, quella che tutto derivava dalla pulsione sessuale, divenuta così famosa e - più o meno correttamente - conosciuta un po' a tutti i livelli culturali, abbia talmente impregnato la concezione popolare dell'esperienza umana, del funzionamento psichico da creare notevoli resistenze alla trasformazione e all'evoluzione delle stesse.

La psicoanalisi, nella credenza popolare, finisce paradossalmente per avallare una visione di una parte così importante della vita e delle relazioni umane quale è la sessualità, come qualcosa di prevalentemente istintuale e a-relazionale (le visione dell'animale pulsionale, appunto), in contrasto con tutti i più recenti studi e sviluppi teorici.

Premessa storica.

Il concetto di "desiderio", che insieme a quello di "pulsione" tanto spazio avrà nella teoria freudiana, assume una particolare importanza per il momento e il modo con cui fa la sua comparsa principale dal punto di vista teorico.
Agli inizi del suo lavoro clinico, indagando i disturbi nevrotici, Freud si era infatti trovato a postulare, come origine degli stessi, un'esperienza di seduzione sessuale infantile operata da una figura genitoriale, subita dai pazienti in età precoce, rimossa e in seguito riemersa a coscienza grazie al lavoro terapeutico.

Finché, dopo lunga ed accurata riflessione, nel 1897 - anno che non a caso segna la "nascita della psicoanalisi" - Freud pervenne alla conclusione che i racconti di seduzione infantile da parte dei pazienti non erano tutti autentici ma, molto più spesso, prodotti della fantasia. Essa allucinava situazioni che non erano accadute realmente ma la cui realizzazione era stata intensamente desiderata dal soggetto nell'infanzia.
Da qui la scoperta (o meglio, la teorizzazione) di una pulsionalità viva ed attiva, presente nel bambino in età precoce: una serie di desideri sessuali ed aggressivi particolarmente potenti verso le figure genitoriali che, non trovando spazio per essere appagati realmente, indirizzano la loro energia in forme deviate di appagamento che si manifestano come difese, sintomi nevrotici, sogni, allucinazioni mnemoniche, perversioni, oppure - trasformandosi attraverso varie forme di sublimazione - come umorismo, religione, arte, ecc...

Da questa nuova visione presero il via la formulazione della teoria pulsionale (libidica e, in un secondo tempo, anche aggressiva), la teoria del complesso edipico, nonché la caduta definitiva dell'innocenza infantile.
Il bambino si trasforma nel "perverso polimorfo" descritto da Freud e la mente umana in un coacervo di tensioni pulsionali in conflitto con l'Io e con la realtà esterna.
Alle pulsioni, quali tensioni fisiche accompagnate da rappresentazioni psichiche, viene così attribuito il ruolo di elemento fondamentale, di motore di tutto ciò che è psichico, di materia prima della mente umana, rispetto a cui le relazioni con l'altro oggettivo e concreto passano in secondo piano: insieme all'affermarsi del "pulsionale" si afferma anche il primato dell'intrapsichico rispetto all'interpersonale.

L'immagine freudiana del bambino come "essere animalesco" si adattava particolarmente all'ambiente scientifico ed intellettuale del tempo, influenzato dalla preminenza della teoria evoluzionistica darwiniana. Il bambino animalesco diventava così l'anello di congiunzione tra gli umani adulti e civilizzati e i nostri antenati animali, laddove - come si diceva allora - "l'ontogenesi ricapitola la filogenesi".

L'importanza di questa inversione di rotta è difficilmente calcolabile: diciamo che da lì ha preso le mosse non solo la teoria pulsionale di Freud ma tutta quella cultura psicoanalitica o pseudo tale che impregna tutt'oggi il senso comune più diffuso, quello dell'essere umano come animale pulsionale, costretto - suo malgrado - a mediazioni sociali, in qualche modo contro i suoi più naturali desideri, visione che fatica non poco a rinnovarsi.

Tornando al desiderio, per Freud quindi, la dimensione desiderante che viene di volta in volta indagata in analisi, è ben più stratificata e complessa di quanto non appaia a prima vista: non si tratta mai soltanto del desiderio attuale della persona adulta, in quanto esso è sempre strettamente collegato ad un desiderio antico, di natura pulsionale, legato alla prima infanzia; tale desiderio infantile avrebbe infatti lasciato una traccia mnestica forte, tutt'ora viva che, congiungendosi a livello inconscio al desiderio attuale e sovrapponendosi ad esso, gli fornisce carica, intensità e tensione tale da potersi placare soltanto nel sogno o nel sintomo nevrotico.

Così il desiderio attuale, generalmente conscio, è caricato di tutta l'intensità del desiderio antico di natura pulsionale, infantile e inconscio, che non si sente mai totalmente placato né appagato e genera pertanto vissuti di frustrazione e di rivendicazione difficilmente spiegabili altrimenti.

Quindi il desiderio sarebbe una dimensione frustrante per natura in quanto collegata ad un substrato "naturale" di desideri infantili inappagati e inappagabili per definizione.

La teoria freudiana delle pulsioni ci presenta quindi una concezione "forte" della natura e dell'esperienza umana: l'essere umano vi è rappresentato come un coacervo di tensioni fisiche di carattere asociale, rappresentate nella mente sottoforma di desideri urgenti sessuali e aggressivi, che cercano di manifestarsi e di trovare appagamento, in una concezione del piacere che resta totalmente a-relazionale.
A ciò si contrappongono le esigenze dell'Io, nonché l'esistenza di altri individui (da cui si dipende per la sopravvivenza) e la necessità di organizzazione sociale, che finiscono per richiedere una rinuncia agli impulsi istintuali infantili.
L'introduzione del principio di realtà - che differisce il piacere e gli sostituisce sovente la sublimazione - consentirà a Freud di ipotizzare l'origine della civiltà, come una sorta di compromesso basato sul "barattare un po' di felicità per un po' di sicurezza".

Ne emerge una visione marcatamente pessimistica, caratterizzata da una tragica incompatibilità tra dimensione pulsionale interna e mondo esterno, che costringe ad una drammatica rinuncia.
In quest'ottica l'individuo, nella sua fondamentale struttura pulsionale, libidica ed aggressiva, è concepito in una sua presunta esistenza a priori rispetto a qualsiasi realtà relazionale; la relazione risulta quindi del tutto secondaria rispetto a ciò verso cui la pulsione (e quindi il desiderio-bisogno) spinge: è strumentale per il raggiungimento del piacere, quando non una sorta di compromesso che l'individuo in questione si trova a subire pur di sopravvivere.

Eppure siamo ormai da tempo in un'epoca post-freudiana, e spesso non ci si rende conto di quanto le concezioni della psicoanalisi attuale - di qualunque corrente - siano mutate rispetto a quelle freudiane originarie.
L'ambiente scientifico e culturale si è notevolmente arricchito e allontanato da quei presupposti.

Le formulazioni successive a Freud, sia da parte degli "scismatici" (Jung e Adler) che di quelli che hanno continuato a definirsi freudiani, hanno necessariamente aperto spiragli più o meno ampi all'importanza delle cosiddette "relazioni oggettuali", riequilibrando l'impostazione teorica e ampliando gli spazi di compatibilità tra intrapsichico e interpersonale, tra istintualità e relazionalità.

Dalla fine degli anni quaranta nella storia della teoria psicoanalitica sono state sempre più sottolineate le relazioni con gli altri, passate e presenti, reali e immaginarie, temute e desiderate.

Si è affermato gradualmente in psicoanalisi, quale bisogno fondamentale umano, quello di relazione, che può essere inteso, di volta in volta, come più o meno in conflitto con altri bisogni-desideri, ma tuttavia irrinunciabile. (Pensiamo a Bowlby e ai suoi studi sull'attaccamento, a Winnicott e alla Mahler e agli studi sulle modalità di relazione madre-bambino con tutte le relative implicazioni sul formarsi psichico del soggetto adulto, ecc...) fino all'Infant Research e gli studi sperimentali che osservano in diretta il formarsi delle prime modalità relazionali.

Alcune teorie sottolineano maggiormente le esigenze legate all'organizzazione del Sé, altre quelle relative all'attaccamento, altre ancora le transazioni interpersonali.
La crescente importanza riconosciuta alle relazioni ha messo sempre più in crisi il modello classico fino a renderlo ad oggi ormai insostenibile.

Una conseguenza assai importante di questo cambiamento di scenario è che il concetto di bisogno-desiderio comincia ad essere inteso non più come qualcosa che esiste a priori rispetto al contesto relazionale, bensì come coesistente e intrecciato ad esso.
Il desiderio è quindi sempre vissuto nel contesto delle relazioni (e non a priori rispetto ad esse), all'interno delle quali di volta in volta, acquisisce forma e significato.

"Non più quindi il bisogno prima del rapporto, bensì il bisogno del rapporto che caratterizza l'essere nel mondo."

Non conosciamo il soggetto umano avulso da una qualche relazione, fosse anche quella tra sé e sé.
Ogni volta che in psicoanalisi si parla dell'essere umano si parla di "qualcuno" che viene osservato e studiato all'interno di una relazione, mai "a-priori" rispetto ad essa, essendo sempre stata una pratica basata sulla relazione tra due.

Ecco nascere il "soggetto desiderante": c'è un soggetto, più o meno "intero" ma già esistente come tale, in relazione con altri soggetti, che patisce una mancanza, ovvero uno stato di bisogno-desiderio, più o meno specifico, che lo spinge "verso" un qualche cosa, che ne motiva l'agire in una qualche direzione.

Dire che l'essere umano è per natura relazionale, dunque presenta come bisogno fondamentale quello di essere in relazione, non significa dire che non ci siano spinte predisposizioni innate, caratteristiche endogene, differenti da soggetto a soggetto, ma significa che esse sempre si manifestano inestricabilmente intrecciate con dinamiche relazionale.

Desiderio e sessualità nel modello relazionale

Una volta superata la visione pulsionale, come possiamo intendere la sessualità?
Non c'è forse il rischio, intendendola come uno dei modi di relazione di espressione del sé nel rapporto con l'altro di ridurne l'importanza e di finire per trascurare le numerosi sfumature e il potere che la sessualità assume nella vita di ciascuno?
Secondo le concezioni relazionali non è l'energia sensuale che spinge la persona, ma la persona ricerca l'esperienza sensuale (ivi compresa quella sessuale) per i significati che ad essa si sono associati nel corso dello sviluppo.
"E' il collegamento con il Sé e con l'atteggiamento verso gli altri come oggetti che distingue la sessualità umana da quella delle altre specie."

Quindi senza cadere nella riduzione dell'importanza della sessualità, nel passaggio dalla teoria pulsionale alla matrice relazionale, è possibile ed auspicabile fornirle invece un contesto teorico più significativo.
Il modello relazionale ipotizza che la creazione di forti legami con gli altri, reali o fantasmatici, sia primaria. La vita stessa può essere intesa come una serie di metafore che esprimono vari schemi relazionali. La sessualità, mettendo in campo il corpo e tutta l'immediatezza della comunicazione non-verbale, diviene un contesto particolarmente adatto per manifestare, in maniera plastica, tali schemi comportamentali relazionali (la tendenza a prevaricare-sottomettersi, la possibilità di reciprocità e condivisione, la tendenza ad umiliare sé o l'altro, la possibilità di provare e donare piacere, il poter o meno manifestare i propri desideri ed accogliere quelli dell'altro,...)

Secondo la psicologia del Sé (Kohut) la sessualità sarebbe piuttosto un'espressione del grado di strutturazione del proprio Sé. Per esempio alcuni disturbi del comportamento sessuale come la compulsività, vengono letti come "riproduzione di sensazioni fisiche come prova della propria esistenza, data la mancanza di legami vivificanti con gli altri", (un surrogato, come la masturbazione consolatoria infantile).

Ci possiamo chiedere perché la sessualità sia così centrale nell'esperienza umana, perché spesso diventi il campo di battaglia in cui si manifestano i problemi relazionali e di strutturazione del Sè?

1) - perché riguarda le sensazioni e gli eventi corporei che, in quanto dominano l'esperienza precoce del bambino, coinvolge l'esperienza profonda. Per ciascuno infatti le prime esperienze corporee e sensuali sono state la base su cui si sono strutturati i sistemi relazionali e le prime percezioni del Sé.
2) - perché mette inevitabilmente in ballo la presenza concreta dell'Altro, quale altra soggettività, altrettanto complessa e per molti aspetti imprevedibile e non controllabile. La sessualità implica compenetrazione di corpi, bisogni, desideri,... e dà spazio ad infinite configurazioni per rappresentare conflitti e mediazioni nelle relazioni.
3) - perché la sessualità attiva tutta una serie di fantasmi (relativi all'intimità dei genitori da cui ci si è sentiti esclusi) riguardanti ciò che è permesso-vietato, ciò che è evidente-celato, ciò che genera inclusione-esclusione. La sessualità intensifica l'esperienza dell'instaurare contatto, creare legame, del superare esclusione e isolamento.
4) - perché l'eccitazione sessuale implica il lasciarsi andare ad una risposta emotiva e fisiologica tanto potente proprio laddove la risposta dell'altro, il suo livello di coinvolgimento e di empatia, non è mai scontata.

Quando la sessualità si avvicina alla vera intimità, cioè allo scambio emotivo autentico e non rituale, ci si affida profondamente l'uno nelle mani dell'altro, ci si offre reciprocamente ciascuno nella propria nudità e vulnerabilità. Per questo è una sfera tanto delicata e sensibile dell'esperienza relazionale. Per questo vulnerabilità e desiderio sono inseparabili.
Non a caso forse negli animali, mentre il rito del corteggiamento può durare molto a lungo, l'atto sessuale in genere è velocissimo: non si può restare a lungo così vulnerabili.

Bisogno - desiderio.

Che cosa caratterizza, nello specifico, il bisogno e il desiderio?

Analogie. Entrambi - bisogno e desiderio - implicano:
- l'esistenza di un soggetto, più o meno intero e completo, - uno stato di mancanza, avvertita dal soggetto come più o meno tollerabile, relativa ad un oggetto o ad uno stato anelato, - una conseguente tensione, una spinta verso quell'oggetto o quello stato anelato, che può dar luogo ad un'azione o a un cambiamento

Che cosa differenzia il bisogno dal desiderio?
- il diverso grado di completezza o integrità del soggetto in questione, (chi desidera è più integro, nella propria soggettività, rispetto a chi ha bisogno, più solido, più forte)
- il grado di impellenza con cui viene concepito e percepito quello stato di mancanza, (mentre il bisogno è imperativo ed impellente, il desiderio permette maggiore libertà)
- la possibilità o meno di sopravvivere (da un punto di vista psicologico) alla frustrazione o dilazione dell'appagamento (il bisogno suggerisce il rischio di annichilimento psichico, se non si ottiene l'appagamento, mentre lo stato desiderante richiede la dilazione dell'appagamento stesso).

Il concetto di desiderio si distingue da quello di bisogno per la non essenzialità dell'appagamento: chi desidera è già nella sua interezza, anche se appagando il desiderio si arricchisce; mentre chi ha bisogno si sente in uno stato di precarietà, di pericolo, a rischio di soccombere; il desiderio prevede una maggiore capacità di reggere l'eventuale frustrazione, una possibilità maggiore di mediare con le risorse al momento disponibili, una apertura a soluzioni creative; il bisogno parla un linguaggio più urgente e disperato, un vissuto sull'onda dell'emergenza, senza spazi di mediazione.

Ma stiamo parlando di differenze oggettive o di differenti vissuti da parte del soggetto in questione?
Cioè: quanto l'esperienza di bisogno-desiderio caratterizza il nostro atteggiamento soggettivo del momento o quanto invece fa parte della situazione oggettivamente intesa?

Forse molta della nostra esperienza umana e relazionale può essere intesa nell'uno o nell'altro modo, a seconda di quanto la percezione di sé (e del proprio Sé) è fragile o sufficientemente solida e consistente, e, per quanto riguarda i bisogni-desideri relazionali, a seconda di quanto la relazione in cui siamo immersi è percepita come sufficientemente solida o precaria.

Il bisogno dispone ad un atteggiamento rigido e ripetitivo (tende a cercare soluzioni nel già conosciuto), e risponde ai criteri dell'immediatezza, mentre il desiderio è più elastico, ha più spazio riflessivo, la mancanza essendo più tollerata diviene generatrice di nuovo, origine di creatività e spinta ad esprimere ed esplorare nuove risorse, nuove possibilità di esistenza (minore sottomissione a forme di esistenza già conosciute e coattivamente ricercate)

Premesso che siamo tutti attraversati sia da vissuti di bisogno che di desiderio, vale la pena riflettere su quanto possa cambiare l'esperienza di un soggetto, alle prese con un senso di mancanza, se egli la interpreta in termini di bisogno, di necessità impellente ed irrinunciabile, (mancanza come malattia, cui porre urgentemente rimedio) oppure in termini di desiderio, di apertura verso, (mancanza come condizione esistenziale) che "apre" all'altro nella ricerca di possibile incontro e compatibilità.
Quindi col variare della percezione di Sé e della relazione all'interno della quale ci si percepisce, può operarsi uno spostamento prezioso dal vissuto di bisogno (immediatezza nevrotica) a quello di desiderio (capacità di mediazione, maturità).

Oltre la sessualità

Ma il desiderio si affaccia anche ad una dimensione più ampia del rapporto, la dimensione universale, che caratterizza il rapporto tra sé e il mondo, il rapporto con la vita.

Il desiderio è l'apertura, la mancanza che ciascuno può sentire a vari livelli, dal più concretistico (fissato su un oggetto desiderato) al più simbolico.

Tutto ciò che è arte è apertura al simbolico, tutto ciò che è ricerca di conoscenza è un modo di mantenere viva l'apertura del desiderio.

Aprirsi al simbolico è trovare un modo di abitare la mancanza come apertura all'infinito, a ciò che non può mai essere esaurito in un nome, un viso, un oggetto specifico, uno stato raggiunto, è imparare a godere di questa apertura. Rinunciare alla tentazione di chiudere il sistema.

Il simbolo è la più adeguata risposta al desiderio, quello "grande", perché il simbolo, a differenza del segno, non rimanda a cose note, ma apre a comprendere le polarità opposte (sum-ballo): il lato animale e quello divino nell'uomo.

Mantenersi aperti al desiderio significa reggere quella grande contraddizione che l'essere umano, per sua natura, è, senza ridurne la dimensione né in un senso (divino) né nell'altro (animale).
Come scrive Pascal:

"Quale chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, stupido verme della terra, depositario della verità, cloaca di incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell'universo!... Conosci dunque, superbo, quale paradosso sei a te stesso. Umìliati, ragione impotente, taci, natura imbecille, imparate che l'uomo eccede infinitamente l'uomo, e apprendete del vostro signore la vostra effettiva condizione, che ignorate!"

Mantenere il contatto con la spinta verso l'infinito, da sempre intuito e presentito dall'uomo, che ha formulato il concetto di Dio, senza perdere il contatto, contemporaneamente, con la propria finitudine, con la mancanza di infinito, con la consapevolezza della morte.
Si tratta di trovare la "giusta misura" tra il sentirsi dio e il riconoscersi verme della terra, reggendo la tragica ambivalenza della natura umana: non inflazionarsi in una presunta compiutezza, perfezione, e contemporaneamente non rinunciare a desiderare, a proseguire il percorso, a spingersi ancora un po' più in là, in ciò consiste forse mantenere l'apertura del desiderio.

Trovare la giusta misura per non farsi fuorviare dal desiderio, non farsi possedere da esso, non "perdere la testa", ma neppure rinunciarvi a priori difensivamente, accontentandosi di quei toni troppo modesti della vita che, come scrive Nietzsche, consegnano l'uomo a "una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute."

La riflessione onesta sul desiderio di infinito riguarda spesso la seconda metà della vita: quando l'affermazione dell'Io ha più o meno raggiunto i suoi traguardi, piccoli o grandi.
Un sano "desiderare" può significare, a quel punto, tentare di mettere in relazione, cercandone il senso, la propria piccola e personale vicenda con la percezione che abbiamo della vita in senso lato, universale, con l'esistenza tutta.

E' come se dalle stelle, dal cosmo, da cui ci sentiamo separati, nella nostra finitudine, esiliati nella nostra individualità, un "desiderio grande", ci giungesse de sempre come un richiamo, che ci invita a guardare verso l'alto, a spingerci oltre, a sentirci in contatto con il tutto, con l'infinito.

Se esiste un determinismo che ci connette agli eventi passati, alle vicende che ci hanno formati e plasmati in questa specifica individualità, esiste pure una connessione con l'avvenire, con ciò che ancora non so e ancora non sono, (l'inconscio inteso in senso junghiano) che pure influisce nell'accadere degli eventi e traccia percorsi e traiettorie da cui possiamo lasciarci guidare.
Una connessione con l'avvenire, con "il senso al di là del non senso" che ci libera da quel determinismo, spingendoci oltre.
Anche questo è mantenersi aperti al desiderio, mantenersi vivi, soggetti desideranti.

"Desiderio è vedere i colori con l'occhio,
Desiderio è odorare i profumi col naso,
Desiderio è far nascere anche un solo pensiero, (...)
La via si trova realizzando un'onestà priva di Desiderio,
ma non allontanando il Desiderio stesso" Takuan Soho

"Se si vuole costruire la casa della felicità ci si ricordi che la stanza più grande deve essere la sala d'attesa." Tagore


Agnese Galotti


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