Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Dicembre 2003 Pag. 12° Alberto Toniutti


Alberto Toniutti

 RICERCHE 

ONORA IL PADRE

Riflessioni sul rapporto transferale nella relazione analitica

Immaginiamo una stanza, luogo di un incontro tra due persone al primo appuntamento. Si siedono l'una di fronte all'altra e iniziano a parlare. Accade che l'una racconti all'altra, che ascolta, la propria vicenda: scampoli arruffati di una vita che forse assumerà consistenza attraverso i futuri e successivi incontri dei due dialoganti.
E' evidente il fatto che qualcuno suppone che ci sia qualcun altro che detenga un sapere che a lui manca e di cui in qualche modo avverte l'esigenza. E' all'incirca dall'inizio del XX secolo che la nostra cultura ha adottato un nome ben preciso per descrivere questa situazione: rapporto analitico e relazione transferale.
Detto questo, incominciamo a porci una domanda che non è affatto scontata e che suona più o meno in questi termini: che cosa significa per noi oggi iniziare un'analisi? Certo questa si può dire iniziata concretamente allorchè ci si accorda all'interno di un setting preciso e si cerca di mantenere fede alla parola data compiendo certe azioni, alcune da parte di un soggetto a cui diamo il nome di analista, altre compiute da parte di un altro soggetto che chiamiamo analizzando.
Ho detto poc'anzi che tale situazione può realizzarsi solo allorchè ci sia qualcuno che per qualcun altro possa essere il portatore di una verità. Ma questa supposizione è forse sufficiente affinché si possa dire che un'analisi sia iniziata? Certamente no, anche se ne rappresenta la condizione indispensabile e la motivazione di fondo senza la quale nessuna analisi può chiamarsi tale.
Pensare che qualcuno possa saperne più di te e chiedere a questo qualcuno, qualora sia un analista, di fare un'analisi e quindi impegnarsi a compiere, anche per lunghi periodi, una serie di azioni in tal senso, non significa affatto che si compia un'analisi. Certo la si inizia, ma se non accade qualcosa di diverso essa rimane appunto all'inizio e non procede oltre.
E proprio in quell'oltre si colloca la possibilità di sviluppare quello che noi chiamiamo transfert.
Senonchè il semplice fatto di sviluppare un transfert non vuole certo dire che automaticamente si arrivi a farvi i conti, ed è certo questo il punto: credo che un'analisi si possa dire conclusa allorchè il transfert venga portato, per così dire, a compimento. Ma questo che cosa significa? Forse il fatto di destituire quel qualcuno, sul quale erano proiettate tutte le nostre aspettative, dal posto fino a quel momento assegnatogli? In un certo senso penso sia così, in un altro credo che le cose non stiano propriamente in questi termini.
Credo che chiunque potrebbe passare una vita intera intento a fare i conti con la propria modalità nevrotica nell'ambito di una relazione d'analisi, e quindi transferale. Peccato che questo fatto rischia di rendere l'analisi infinita e che quindi conduca a non fare i conti fino in fondo con la posizione soggettiva che ciascuno occupa in un rapporto d'amore, assumendosi in tal senso la responsabilità di quell'amore.
E allora che cosa significa tutto questo? Forse che necessariamente il Padre, e quindi quel qualcuno che si suppone essere depositario della verità, deve essere "fatto fuori"? Se con ciò vogliamo intendere la possibilità di compiere la fatica di assumerci la responsabilità di portarci dentro quel padre, credo che le cose stiano esattamente in questi termini. Se invece ciò che stiamo dicendo significa avere la necessità di ucciderlo e, in funzione di un senso di colpa, istituire nuove regole per dare l'avvio a un nuovo mondo e a un nuovo gruppo di convivenza che giocoforza esclude chi fino a quel momento ha incarnato la Legge, credo che le cose non stiano affatto in questi termini.
In fin dei conti è proprio la possibilità di pensare e quindi la possibilità di dare parola allo scarto esistente tra queste due posizioni ciò che ci permette di differenziarci dalla visione freudiana - per intenderci, quella del mito dell'orda barbarica e del parricidio -. In quest'ottica, infatti, la nuova Legge (il nuovo gruppo, le nuove regole, il nuovo Padre) proviene inesorabilmente dal senso di colpa per l'uccisione di un padre. Se questa fosse l'unica possibilità, noi non saremmo altro che dei ripetitori. Seguendo il mito freudiano in "Totem e Tabù" noi dovremmo sentirci in colpa per l'uccisione del padre e, fosse anche perché mossi dalla paura che i nostri futuri figli possano con noi compiere la medesima azione (e non avrebbero altra scelta se questo procedere rappresentasse l'unico canale percorribile che conduce alla libertà soggettiva), dovremmo essere pronti ad istituire nel nostro nuovo mondo o nuovo modo di relazionarci - che, beninteso, in quest'ottica non contempla più il vecchio Padre - nuove leggi le quali non servirebbero ad altro che a sopperire, un po' per paura e un po' per colpa, le funzioni di un padre.
Se questa fosse per noi l'unica strada percorribile allora sarebbe di certo ben poca cosa. Che cosa mai potremmo creare in tal modo se non simulacri di soggetti che a loro modo e con la propria vicenda nevrotica restano intrappolati in una relazione transferale che - per paura o per colpa, in fondo poco importa - non è stata portata a compimento?
Credo invece che ci sia data la possibilità di procedere in un'altra direzione, magari da noi assunta solo con lo statuto della scommessa e dell'interrogativo. Situazione questa che, se non altro, dà la possibilità ad ognuno di riaprire i conti (sia come singolo, sia come gruppo) con la questione del Padre - che altro non è se non il luogo che per ognuno di noi diviene depositario di una supposizione di sapere e da cui derivano le nostre regole di convivenza e il nostro modo di pensare e di vivere - e quindi con la Legge.
Riaprire i conti qui non significa altro che iniziare a pensare la nostra storia in modo diverso rispetto a un prima, e quindi iniziare a interrogarci su un "adesso" e su un "dopo" senza aderire in modo immediato ad alcunchè. Pensare significa, nell'accezione forte del termine, incominciare a porci dei problemi circa i fondamenti del nostro agire. Quindi, prima di tutto, imparare a non darlo per scontato.
Ma non dare per scontato che cosa? Appunto il transfert, e quindi la relazione con quel padre che in qualche modo è stato ucciso.
Assumersi la responsabilità delle proprie azioni - e quindi, necessariamente, anche del transfert - non vuole dire forse porre un interrogativo rispetto al presunto formarsi di quella legge che, in chiave freudiana, non riesce a essere altro che un'illusione dietro la quale ognuno si nasconde con la propria nevrosi? E poi, perché ipotizzare la possibilità di assumerci un fardello così grande e in nome di che cosa poterlo fare?
Mi pare che l'unica risposta che riesca a soddisfare il maggior numero di interrogativi che la domanda precedentemente posta solleva sia la seguente: l'amore.
Ma amore per che cosa? Per se stessi non certo, altrimenti l'istinto di sopravvivenza e la legge naturale del minimo mezzo ci porterebbe certo a percorrere, come già ipotizzato, strade alquanto diverse. Quindi, l'unico amore che in questa vicenda riusciamo a rintracciare mi pare essere quello per la verità. Verità di una soggettività che nella relazione con l'altro chiede ad ognuno di assumersi la responsabilità delle proprie azioni fino in fondo, costi quel che costi, anche a rischio della morte e del crollo delle certezze che sino ad oggi ci hanno accompagnato.
Ma che cosa dunque può permettere la dicibilità dell'indicibile? Che cosa consente ad ognuno di noi di fare lo sforzo di mettere in questione la sicurezza della legge e delle regole (personali, familiari, sociali) attraverso cui fino ad oggi ha vissuto? E questo, dicevamo, senza "far fuori" ciò che non ci piace o ciò da cui è giunta l'ora di prendere commiato.
Ecco che allora emerge il vero nodo che costituisce oggi la scommessa inerente il nostro lavoro: la terminabilità di un'analisi, ovvero il senso che oggi ha per noi l'analisi - che occupiamo la posizione dell'analista o quella dell'analizzando il discorso non cambia affatto-.
Se l'analisi è interminabile in fin dei conti credo serva a ben poco: tutt'al più in questo modo insegnerebbe ad ognuno a meglio gestire il proprio sintomo nevrotico continuando ad avere qualcuno a cui, a diverse riprese ed in diversi modi, demandarlo. L'analisi concepita come terminabile, invece, ci può insegnare qualcosa di estremamente importante, ponendoci nella condizione dei ricercatori che molto poco hanno trovato e che molto oggi sanno di poter scoprire.
Se non ci limitiamo all'assunzione ripetitiva di una legge alla cui ombra poter nascondere le proprie miserie - ed è questo in fondo l'assunto di base del mito freudiano - ci troviamo necessariamente a fare i conti con ciò che per l'uomo rappresenta la scommessa più grande:
l'amore. Un amore per la verità che ci permette di assumerci il compito di essere padri.
Ma questo, in definitiva, che cosa significa? Non certo il fatto di pensare di saperne di più del proprio padre (e quindi dell'analista, o dell'analizzante, o dell'amico o dell'amante con cui di volta in volta ci troviamo a tessere relazioni). Se così fosse non faremmo altro che inciampare nella nostra nevrosi e nel limite egoico che essa traccia. Non significa neppure promuovere il tentativo di incarnare una sorta di ideale di perfezione, perché in tal caso l'unico posto che verremo ad occupare sarebbe quello del delirio psicotico.
E allora? Che cosa ci rimane?
Forse solo il compito di dare a qualcuno (a noi stessi? ai nostri figli? al progetto insito nella nostra vita?) quello che non abbiamo, e questo a costo della nostra sopravvivenza. E cosa mai oggi non abbiamo, o meglio, che cosa non siamo? Non è forse questo il difficile compito di assumerci fino in fondo la responsabilità del nostro agire, accogliendo e accettando la nostra imperfezione? E' in questo luogo, infatti, che nasce l'amore. E tenere fede a tutto questo implica necessariamente lo sforzo, che non può essere altro che gratuito, di pensare.
Quanto detto non è affatto poca cosa e non è certo scontato in un contesto relazionale in cui - ne siamo testimoni - per sottrarci a questo mille artifizi nevrotici, edipici e proiettivi vengono messi in atto.
In fin dei conti credo che l'analisi possa far giungere ognuno in quel punto dal quale è necessario partire: assunzione della responsabilità della propria verità soggettiva quale luogo che attesta l'elaborazione del transfert e dunque la possibilità del manifestarsi del senso attraverso l'azione di ognuno.
Il punto è dunque quello di essere disposti a mettere in questione la propria formazione soggettiva. Solo se sappiamo e siamo disposti ad accogliere il fatto di "non essere già formati" nel corso dell'opera che ci accingiamo a svolgere , solo in questo modo diviene possibile continuare a pensare e dunque a mettere in questione il nostro piccolo io. Altrimenti l'identificazione isterica al così detto "Sè", al "Tutto" o alla "Presenza" non farebbe altro che farci ripetere l'ennesimo meccanismo transferale, rimanendo in esso bloccati.


Alberto Toniutti


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