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Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Settembre 1994 Pag. 9° Agnese Galotti

Agnese Galotti

 MITI E LEGGENDE 

ORFEO ED EURIDICE

Orfeo fu il più famoso poeta e cantore mai esistito. La lira gli fu donata da Apollo che, secondo alcuni, gli fu padre, e le Muse, tra le quali Calliope, sua madre, gli insegnarono ad usarla, ed egli ne apprese l’arte tanto meravigliosamente che non solo gli animali ma anche gli alberi e i massi lo seguivano incantati. Dopo il suo viaggio in Egitto, dove ebbe i primi contatti con i Misteri, prese parte alla spedizione degli Argonauti e con la sua arte fu loro di grande aiuto in situazioni difficili. Amò perdutamente Euridice il cui nome, "colei che giudica in un vasto territorio", che spettava originariamente solo a Persefone, la regina degli Inferi, lascia presagire quanto accadrà.

La storia - così come ci è narrata da Ovidio nelle "Metamorfosi" - avviene in Tessaglia, dove già Alcesti era stata liberata dagli artigli della morte. I due si erano appena uniti in matrimonio quando Aristeo, anch’egli innamorato di Euridice ed anch’egli figlio di Apollo, osò inseguirla nel tentativo di usarle violenza, ma ella fuggendo calpestò inavvertitamente un serpente e morì per il suo morso.
Affidandosi alla propria lira Orfeo si incamminò per l’ardua via che conduce nell’oscuro ("orphne" appunto) regno dei morti nella speranza di ricondurre con sè l’amata.
Soltanto pochi uomini avevano percorso, vivi, quella via Teseo, Giasone, Eracle - ma nessuno come lui per amore di una donna.
Giunto nell’Oltretomba la sua musica non soltanto incantò Caronte, il traghettatore e placò i latrati del cane Cerbero, ma fece cessare temporaneamente le torture dei dannati. Il suo canto arrivò fino al cuore dei sovrani degli Inferi, Ade e Persefone che, mossi a compassione, acconsentirono a restituire Euridice al suo sposo. Orfeo dunque aveva ottenuto l’impossibile: Euridice poteva finalmente seguirlo e far ritorno con lui nella terra dei vivi, ma ad una condizione: ch’egli non si voltasse a guardarla finchè non fossero giunti alla piena luce del giorno.
Tale era la legge degli abitanti degli Inferi: nessun vivo poteva guardarli, nessuno sguardo era concesso, soltanto la voce.
Euridice seguì Orfeo su per l’oscura voragine, guidata dal suono della lira, ma appena spuntò un primo raggio di luce Orfeo si volse a guardarla e così la perdette per sempre.
"Perchè si volse il cantore? Quale fu la ragione, se non l’enorme, la definitiva separazione che divide il vivo dal morto?".
Lì si ruppe qualcosa, ed emerse con tutta la sua drammaticità la "sacra ambiguità" della poesia: essa sa coniugare mondi apparentemente distinti, il tempo con l’assenza di tempo, la percezione della finitezza con l’anelito verso l’infinito, l’amore eterno con la consapevolezza della morte, ma richiede fedeltà assoluta: non ammette esitazioni nè tentennamenti Il suo potere permane fintantochè si accetta di lasciarsi da essa totalmente condurre: al primo cedimento tutto si frantuma.
Inutilmente Orfeo tentò di inseguirla: Euridice, tornata ombra, era scomparsa e la strada che conduceva agli Inferi era per lui sbarrata. Egli non potè più che cantarla e piangerla senza posa.
Spesso nell’antichità la figura di Orfeo fu sovrapposta a quella di Dioniso, il dio che invece riuscì a sottrarre al regno dei morti la propria madre Semele.
Infatti i riti misterici cui egli diede l’avvio, i misteri Orfici, in cui ai nuovi adepti egli rivelava quanto aveva appreso lungo il suo viaggio nell’Aldilà, si collocavano all’interno della religione di Dioniso, dio della contraddizione, nella cui presenza si mostrano gli opposti: "vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco." E l’ombra che cadde allora su Orfeo fu di natura dionisiaca.
Tuttavia in questo non si esauriva la sua essenza: come Dioniso aveva a che fare con l’estasi e la morte, ma contro Dioniso Orfeo si oppose alla sfrenatezza orgiastica del suo culto. Egli apparteneva infatti per natura anche ad Apollo, suo padre, dio dell’intelletto e della sapienza, colui che gli aveva insegnato la contenutezza emotiva necessaria al canto.
La sua poesia è contemporaneamente "parola" apollinea, pensiero dunque, e passione sublime, erotismo dionisiaco. Per questo essa riesce ad esprimere l’indicibile, l’estasi misterica, il divino che pure nell’umano già "si dice".
In ciò sta l’intuizione di una completezza ma anche la dolorosa lacerazione che Orfeo incarna, propria di ogni essere umano creativo che accolga in sè la spinta a farsi compenetrare dagli opposti.
Orfeo dunque, è un personaggio mitico che i Greci hanno inventato per dare un volto alla grande insanabile contraddizione, al paradosso della polarità e dell’unità tra i due grandi dei, simboli - noi diremmo - dell’Eros e del Logos.
Tuttavia in Orfeo non avviene la pacificazione di Dioniso e Apollo: egli esprime la loro unione ma perisce straziato dalla loro separazione.
Egli morì dilaniato dalle Menadi, donne di Tracia, che, forse offese per l’ostinato rifiuto opposto da Orfeo alle loro profferte d’amore, (si narra ch’egli, dopo la cattiva sorte della moglie, fosse diventato omosessuale) o forse sdegnate per il veto ch’egli poneva a che le donne prendessero parte ai Misteri, lo fecero a pezzi e lo gettarono nelle acque del fiume.
Ma secondo un’altra versione fu proprio Dioniso, irritato dall’eccessivo "distacco apollineo" mostrato dal suo sacerdote nella celebrazione dei riti, che ne ordinò l’uccisione e lo smembramento.
Tuttavia la sua testa rimase integra, sorretta dalla lira e, continuando a cantare, galleggiò fino a che fu portata dalle onde all’isola di Lesbo, che divenne da allora terra di dolci canti.
Come nella più classica tradizione dell’epopea eroica, la morte e lo smembramento preludono ad una nuova rinascita.
Ciò che rinasce dalle spoglie di Orfeo è allora proprio la "poesia", quale parola libera da ogni funzione concreta, da ogni finalismo: il canto piacevole e profondo che tocca cuore e mente insieme.
Ed è proprio il superamento di ogni finalità pratica lo sfondo simbolico della discesa di Orfeo agli Inferi, ciò che gli consente di "vedere l’invisibile", varcando così le soglie del mondo conosciuto.
Da qui si apre l’accesso al mistero: questo è il potere iniziatico della poesia, quale accesso al "doppio mondo", come l’ha definito un degno epigone del grande Orfeo, a noi contemporaneo, R.M.Rilke in uno dei suoi "sonetti ad Orfeo" appunto, là dove scrive:
"Solo chi già alta levò la lira anche tra ombre può nel presentimento trarre lode infinita.
Solo chi ha gustato coi morti il loro papavero anche il suono più lieve mai riperderà. (...)
Solo nel doppio regno divengono le voci eterne e dolci".


Agnese Galotti


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