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N° 04 Maria Campolo
 CONFERENZE 

IL PARADOSSO EVOLUTIVO

Dalle origini della coscienza

Il termine paradosso deriva dal greco "paradokson", formato dal vocabolo "para" (contro) e "doksa" (opinione) . Il dizionario così definisce questo vocabolo: "Proposizione formulata in apparente contraddizione con l’esperienza comune o con i principi della logica ma che, sottoposta ad esame critico, si dimostra valida." Per evoluzione, nell’aspetto che ci interessa prendere in esame, si intende un processo in continua trasformazione che assume forme sempre più complesse, le quali aggiungono di volta in volta nuovi dati al patrimonio di conoscenza che le forme stesse portano con sé.
Ciò che cercheremo di analizzare è come, e se, i due termini possono entrare in rapporto tra di loro.
Tenteremo la nostra indagine partendo da quel momento ideale in cui il percorso evolutivo ha avuto inizio, e lo faremo ricorrendo al mito e più esattamente alla cosmogonia egizia. Si narra che il dio Horus, mentre volava nell’abissale buio del Nulla, ad un tratto aprì il suo occhio e nell’aprirlo creò il mondo.
Poichè ciò che vide era straordinariamente bello, egli lo amò tanto che, dalla commozione, scaturì una lacrima la quale inondò l’intero universo dandogli così la vita.
Detto in altri termini, e più precisamente con Silvia Montefoschi, possiamo dire che l’origine dell’evoluzione si ebbe quando l’Essere, l’Uno iniziale, separò da sè la propria oggettualità, la materia, creando così quello spazio necessario che gli permise di poter vedere nella propria oggettualità se stesso riflesso.
Dunque il fine di tale separazione fu per l’essere, il poter aver sempre più coscienza di sé attraverso le forme che lungo il tempo l’essere stesso assume.
Tra le innumerevoli forme di vita che l’evoluzione ha generato dalla nascita dell’universo ad oggi, il punto più elevato di tale processo conoscitivo viene a coincidere nell’uomo poichè egli è il solo, per quanto a tutt’oggi sappiamo, tra le forme del reale, a possedere l’autocoscienza, ovvero a sapere di sapere di sè.
Ecco perchè possiamo dire che l’uomo è l’occhio attraverso il quale l’essere prende coscienza di se stesso. In tale affermazione abbiamo già formulato, secondo la logica comune, il primo paradosso poichè ciò equivale ad affermare che l’Essere, l’Ente supremo, Dio, esiste solo in virtù del fatto che vi è un occhio, quello dell’uomo, che lo vede.
In ciò il paradosso è evidente, infatti si dice che Dio, termine al quale associamo i concetti di Infinito, Eterno, Verità, Bene assoluto, affiderebbe il suo essere, e quindi il suo stesso esistere, all’uomo che è per definizione un essere calato nello spazio-tempo perciò mortale, limitato, corruttibile in quanto materia e soggetto ad errare.
Da qui ne possiamo concludere che Dio è in quanto paradossale; paradosso incarnato dall’uomo che definiamo a ragione, come una essenza-accidentale, una totalità in perenne stato di necessità, una sintesi di universale e particolare, un ente che sa di portare in sè infinite coppie di concetti tra loro contraddittori.
La contraddittorietà nasce in quell’ideale istante in cui l’essere si separa da se stesso, dando vita alla prima tra le infinite coppie di antinomie su cui poggia tutta la dialettica del divenire: spirito e materia, soggetto ed oggetto, conoscente e conosciuto, tesi ed antitesi, ovvero gli elementi di quel perenne dialogo che mediando i due termini opposti dà luogo a sempre nuove sintesi e quindi a nuova conoscenza.
La coscienza umana ai suoi albori, secondo Montefoschi, non potè vedere immediatamente e contemporaneamente i due termini della dialettica che in essa esistono: essere cioè cosciente che il conoscente e il conosciuto coincidevano.
Era necessario che prima, volgendo lo sguardo il mondo, lo avvertisse come "altro da sè", affinchè potesse conoscerlo, ordinarlo, nominarlo. Distinguendo come altro da sè tutto il reale, la coscienza ha finito con l’identificarsi unicamente nel soggetto che conosce.
Tale rimozione ha dato vita ad una visione del mondo in cui regna il principio di non contraddizione: dove A non può mai essere anche B, ove il conoscente non può essere allo stesso tempo l’oggetto che viene conosciuto, dove l’io non coincide con l’altro da sè.
Tutto ciò è stato funzionale poichè ha permesso alla coscienza dell’uomo di strutturarsi, di non ricadere nell’indifferenziato, nel caos originario, dando così il via al percorso infinito della dialettica universale.
L’uomo ha strutturato la sua vita sociale secondo questo metodo conoscitivo. La struttura sociale poggia infatti su ruoli tra loro complementari che danno vita ad un intreccio di rapporti di interdipendenza da cui scaturiscono i valori che vengono riconosciuti dalla collettività.
L’individuo è chiamato ad aderire ad uno di questi ruoli che la società propone abbracciando così anche i valori espressi dalla società stessa.
Questo sistema è stato valido fino a quando l’evoluzione non ha raggiunto nella coscienza dell’uomo, una consapevolezza tale che ha impedito di aderire ulteriormente in modo acritico ai modelli di vita proposti dalla società e al modello conoscitivo che li aveva espressi.
Certamente durante il percorso storico dell’uomo sono stati messi in crisi i valori espressi dal sociale, ma non si era mai verificata una crisi così profonda della società che l’uomo esprime, come nell’ultimo secolo.
Alla fine del secolo scorso è accaduto infatti, che lo sguardo dell’uomo verso il mondo esterno ha trovato il suo apice nelle scienze esatte che durante gli ultimi secoli erano nate e che fornivano ora la prova all’uomo delle sue capacità intellettive di conoscere in modo verace il mondo intorno a lui.
Con il positivismo si assolutizza tale conoscenza scientifica tanto da ritenere che questo sia il solo campo a cui la speculazione umana deve rivolgere la propria attenzione. Infatti si riteneva che questo tipo di conoscenza, essendo verificabile, non lasciasse adito a dubbi i sulla veridicità delle conoscenze che di volta in volta venivano raggiunte.
Da questa visione del mondo scaturì, di conseguenza, la messa al bando di tutto ciò che riguardava la metafisica, la quale per sua natura, non permette di essere sottoposta al metodo scientifico strettamente inteso.
Questa estremizzazione prodotta dal positivismo aprì un movimento mento critico che sottolineò nuovamente tutti quegli aspetti dell’uomo che non possono essere risolti dalle scienze esatte e che riguardano l’interiorità della vita umana. Furono quindi riportati alla luce temi quali l’intuizione, il sentimento, la coscienza religiosa.
Tra questi uomini che rivolgevano lo sguardo verso l’interiorità dell’uomo, vi fu Freud. Egli sconvolse la visione che l’umanità aveva di se stessa, svelando che vi è un mondo sconosciuto dentro ogni individuo che lo influenza a sua insaputa: l’inconscio.
Fu così che l’essere fornì all’uomo uno strumento essenziale all’evoluzione stessa: la psicoanalisi. Infatti poichè il soggetto in analisi ha come oggetto della sua riflessione se stesso, arriva a superare la dicotomia che vuole l’osservatore come altro dall’osservato.
L’individuo recuperando a sè tutte le proiezioni di cui aveva investito il mondo circostante, si riapre alla dialettica prendendo in esame tutte le sue contraddittorietà; si apre al dialogo tra coscienza ed inconscio, arrivando ad essere cosciente del paradosso che e gli incarna.
Chi accede alla psicoanalisi è dunque l’individuo che non potendo più aderire ai ruoli univoci che la società propone, avverte il disagio che porta dentro di sè e se ne fa carico.
Egli cerca in sè una risposta a quel malessere che prova; nella ricerca interiore egli non delega più alla società il compito di cercarla per lui.
Il soggetto che accoglie il suo disagio esistenziale inizia un dialogo con quella parte oscura, inconscia appunto, in cui confluiscono tutti quei vissuti personali che allontanati dalla coscienza, continuano ad agire sull’individuo tanto da condizionare il suo comportamento.
Il disagio del soggetto nasce quindi proprio dall’ignoranza delle proprie vicende esistenziali, così la conoscenza di tali vicende trasforma sia l’oggetto (le vicende inconscie) poichè perdono il loro carattere di pulsioni tra loro incoerenti, sia il soggetto perchè l’individuo non percepisce più se stesso in balia delle vicende e si riconosce un soggetto responsabile della storia che le vicende stesse compongono.
Jung aggiunge a questa concezione dell’inconscio una dimensione più ampia, riconoscendo che esso non è solo un patrimonio dell’individuo, bensì ha natura collettiva, patrimonio di conoscenza dell’umanità intera.
L’inconscio collettivo è il punto d’arrivo del processo conoscitivo universale che l’umanità ha realizzato e che porta con sè il progetto di un ulteriore divenire.
L’inconscio quindi si identifica con il pervenire dell’essere alla coscienza di sè; processo che non può che avvenire nel percorso conoscitivo individuale in cui si risolve nel compito assegnato ad ogni uomo che consiste nel realizzare il senso del suo esistere.
Nel percorso analitico il soggetto scopre che le dinamiche che in lui si danno appartengono alla dialettica della condizione umana e riaprendosi ad essa egli si colloca al centro di se stesso e contemporaneamente al "centro di quella totalità di cui egli è parte riconoscendosi sia come soggetto che come strumento del divenire.
Riconosce la sua condizione di paradosso teso continuamente tra queste due nature che lo compongono: istinto e cultura, spirito e materia, uomo e Dio e ricompone questi due lati del suo essere.
Accade allora che il soggetto rinunciando al possesso di se stesso di cui l’io si era impadronito indebitamente, di fatto si inserisce nel divenire universale rispondendo così a quella chiamata che il Sè universale gli aveva indirizzato (sentendola quindi come altro da sè stesso) e così facendo rinuncia ad identificarsi solo nella sua natura finita e supera il limite della sua stessa esistenza temporale.
Passo questo tra i più ardui poichè la nostra identità di uomo è fortemente aggrappata proprio al limite, all’essere mortale e alla lacerazione che nasce tra il sapere di essere Anthropos e di tendere nello stesso tempo verso il divino.
Lacerazione che produce il dolore, dolore che allo stesso tempo ci fa sentire quell’identità solo calata nel particolare: ovvero per tornare al paradosso siamo fortemente attaccati al dolore nonostante da sempre l’uomo si dice voler perseguire il benessere dove per benessere si intende l’essere-Bene.
La sofferenza è dunque una componente della identità umana che fa sentire l’uomo come un eroe capace di sostenere con estremo coraggio il dolore, che è tipicamente umano in quanto non appartiene certo a Dio poichè egli è per definizione il Bene assoluto.
E’ così che l’uomo affrontando la morte del suo riconoscersi solo particolare, di fatto la sconfigge poichè rinasce nuovamente portando con sè una nuova visione del mondo.
E come Horus nuovamente ricrea il mondo guardando sotto un nuovo aspetto e come il dio non può che amarlo tanto splendido appare alla sua coscienza e come Horus non può che commuoversi davanti a tanto amore.
Nel compiere questo cammino il paradosso incarnato (ovvero l’uomo) scopre che era solo apparente la contraddizione che lo sostanzia, poichè scopre che l’essere sia uomo che dio, sia particolare che universale, fa parte di Dio stesso, poichè l’uno non si dà senza l’altro, che le due nature sono di fatto una sola.

Genova 25 Novembre 1994

Maria Campolo


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